Cultura

Dieci

Allora, ci sono un navigatore fiorentino, un olandese con la gamba di legno, 60 fiorini, una statua e… La mia storia banale, d’ennesimo immigrato italiano, si è intrecciata con quella di New York, ben più interessante. Non è un merito particolare vivere in una città o in un’altra, tanto meno esserci nati. Ma quanto a me, dopo questi primi dieci anni esatti di vita newyorchese: “bene, bravo, sette più”.


“Il cavallo è un animale molto generoso”, leggeva dal suo tema l’alunno Cochi, studente poco brillante ma di famiglia benestante. “Quando ha soldi, li regala a tutti”.

“Bene, bene”, replicava alle sue spalle il maestro Renato, insegnante proletario e squattrinato.

Poi Cochi arrivava alla fine. “Il cavallo per appoggiare i piedi ha le staffe. Quando le perde, si arrabbia molto. Quando i cavalli fanno i passi uguali, si mandano al circo. E un asin grigio, rosicchiando un carro piccolo e turco, pensò: come mi piacerebbe mangiare una tortà di bignè. E scese dal treno”.

E il maestro Renato, serio: “Bravo, 7+”.

E io rido, rido e rido ancora di più. Rido tutte le volte che rivedo questo sketch e tanti altri di Cochi e Renato. Surreali, assurdi. Se conoscete qualcuno che ama i cavalli, apprezzerà la scenetta. E così pure gli insegnanti zelanti e adulatori per la necessità di tirare a campare. Quella citazione di Carducci, l’asino bigio che diventa grigio, è da applausi. Signore e signori, tutti in piedi!

VAI AVANTI TU, CHÉ A ME VIENE DA…

Non ho mai frequentato Milano più di tanto, peccato. Ogni torinese, poi, deve crescere con l’idea che Milano sia il Male Assoluto che ha scippato tutto quello che Torino aveva creato, e non importa quanto l’idea sia cretina e priva di valore. Quando penso a Milano io vedo Cochi e Renato, Jannacci, Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Antonio Albanese, Elio e Le Storie Tese e tanti altri. Così come chi pensa a Torino potrebbe immaginare il Macario del passato lontano o la contemporanea Luciana Littizzetto. Quando io pensavo alla New York che faceva ridere, davanti a me vedevo soprattutto Woody Allen. New York, in genere, non faceva ridere. Era ruvida, violenta, pericolosa, sexy da morire (letteralmente).

Banale dirlo. Ma la comicità, così come il linguaggio in generale, è forse quanto di più connesso esista alla cultura profonda di un luogo, e non solo quella popolare. Te ne accorgi ancora di più quando parti dal paese natio e devi allentare la corda della tua lingua madre. Certo, pensando a New York anch’io anni fa potevo dire di conoscere il Saturday Night Live, ma era impossibile coglierne i tanti riferimenti all’attualità o alla vita quotidiana americana, e non riuscivo davvero a ridere. 

Adesso che sono un newyorchese a tutti gli effetti, e dopo questi primi dieci anni di vita negli Stati Uniti, rido per giochi di parole che sono intraducibili in italiano. Rido per le imitazioni, i pregiudizi regionali o le ossessioni locali. Il mio orecchio sa già cosa aspettarsi da Mel Brooks, Chevy Chase o Eddie Murphy. Come altri milioni che vivono qui, mi ritrovo al volo nelle battute di tantissimi comici di lunga data ma non particolarmente noti in Italia, quando non sconosciuti del tutto: Jim Gaffigan, Colin Quinn, Amy Schumer, Kristen Wiig, Fred Armisen, Louis CK, Chris Rock, Adam Sandler, Tina Fey, Jon Stewart, Larry David, Jerry Seinfeld. Tutti “newyorchesi”, peraltro: nati e cresciuti quaggiù oppure arrivati da altre città e qui affermatisi. Newyorchesi come le due giovani attrici Abbi Jacobson e Ilana Glazer della serie “Broad City”, alle cui storie ridicole e folli ci si può relazionare facilmente se si vive in questa città. Qualche volta, per curiosità, ho provato a vedere “Seinfeld” doppiato in italiano. Nemmeno sapevo, prima d’arrivare in America, che ci fosse stata una versione italiana. Comunque, niente da fare, non ha alcun senso, e non è particolarmente divertente. Ma in lingua originale? Rido in continuazione. Posso rivedere l’episodio del parcheggio o quello della babka o quello della metropolitana, dell’aeroporto, della zuppa, dell’insalata, del manichino, delle posate per tagliare la barretta di cioccolato e via di questo passo, più e più volte. Mi fanno sempre ridere. Adesso, poi, credo che non ci sia niente che possa rappresentare New York meglio di Seinfeld e soci. Ovviamente, non è vero, ma si avvicina assai.

Quello che invece corrisponde al vero è che New York, un po’ come Milano, è da sempre una città ideale per far crescere comici. Perché New York, fin dalle sue origini, anche quando le paure alimentavano sospetti e intolleranze, è però sempre stata aperta a tutti quanti. E quindi è un terreno involontario, quasi naturale, per tutte quelle contraddizioni e quei contrasti che scatenano la risata. I George Costanza, le Elaine e i Kramer che solo per comodità narrativa ruotavano nella scenografia dell’appartamento di Seinfeld, sono veramente là fuori. Ci sono tanti dei personaggi assurdi che nella serie sono diventate caricature. 

Quando a Milano i comici dicevano “si ringrazia la Regione Puglia per averci fornito i milanesi”, forse senza nemmeno saperlo raccontavano l’anima più vera della loro città: un luogo magari ruvido ma che accoglieva più di altri, dove mettere radici e fare parte di una storia e di un’identità più grandi. Non era solo un meridionale come Giorgio Porcaro che poteva provare a fare fortuna nei cabaret di Milano. Ma anche gente come Felice Andreasi e Giorgio Faletti, che arrivavano dal vicinissimo Piemonte, ingrato coi suoi figli. Quando Torino, qualche decennio dopo, ha provato ad aprirsi pure lei, che aveva sempre sognato di diventare una grande metropoli, era ormai tardi. Milano, magari senza la frenesia newyorchese, ha comunque continua ad accelerare e Torino, invece, è oggi lì che fatica, guardandosi allo specchio senza più riconoscersi. Per crescere, smettere di vedersi come una città di montagna sarebbe già una buona cosa.

IL VILLAGGIO TOLLERANTE CHE STUDIAVA PER DIVENTARE METROPOLI

Alcuni storici newyorchesi dicono che in questa città tutto avviene con dieci anni di anticipo rispetto al resto dell’America. La geografia l’ha in parte aiutata,  è sufficiente guardare una mappa per intuirlo. Ma per diventare un colosso economico senza eguali, che poi ha trascinato il resto della Nazione, ha dovuto ingegnarsi e sfidare i limiti imposti da quella stessa geografia. È molto probabile che gli storici newyorchesi abbiano ragione quando nel bene e nel male vedono questa città come un’avanguardia, e non solo perché loro hanno sicuramente studiato e sanno di cosa parlano. Basta avere la fortuna di girare un po’ per quest’immensa nazione e si capisce. New York non è un’eccezione nel panorama americano, niente affatto. È anzi l’emblema più evidente dell’esperimento americano in tema di democrazia e capitalismo. I suoi palazzi, le sue strade e i suoi treni invecchiano. Ci sono città del sud degli Stati Uniti che adesso luccicano, tanto sono nuove di zecca (si, Miami, sto pensando a te). Ma il flusso ininterrotto e sregolato di persone che arrivano qui da tutto il mondo ogni giorno, le lingue più disparate che si ascoltano lungo i suoi marciapiedi, la sfida continua per farsi letteralmente spazio dove tutto è già stato costruito, la corsa per il successo e per reinventarsi ne fanno ancora la città della modernità per eccellenza, con tutti i mal di testa annessi. Dichiarazione che sembra iperbolica, decisamente retorica, lo vedo da me. Ma è un’iperbole solo per chi non può realmente conoscere questa città. 

Non basta costruire i palazzi più alti al mondo, ché New York da tempo ha abbandonato quella competizione; o gli aeroporti con cinema e parchi divertimento, ché anche le nuove ristrutturazioni degli scali newyorchesi invitano a muoversi alla svelta e tornare il prima possibile nel mondo “reale”. Posti a sedere all’ingresso dei terminal? Neanche per sogno. Le architetture più geniali non bastano a fregiarsi del titolo di città moderna e globale. Non basta nemmeno educare alla progettazione di piazze con panchine comode per gli anziani o alla mappatura delle aree urbane più esposte ai cambiamenti climatici (anche quando tanti dirigenti delle passate amministrazioni newyorchesi offrono adesso le loro consulenze in tal senso a sindaci delle metropoli di mezzo mondo). 

A New York non esiste un modello di città moderna e globale da imitare. Perché quel modello è sempre stata la stessa New York. Perché questa città ha incarnato l’idea in sé di modernità e per i primi 200 anni della sua vita, sino all’apertura dell’Erie Canal e al collegamento con il ricco Midwest americano (proprio per sfidare quei limiti della sua pur benevola geografia), nemmeno lo sapeva. New York si è sviluppata con l’idea di non fermarsi mai, di costruire strade, ponti, abitazioni per sempre nuovi newyorchesi, di fare affari, primeggiare, allargarsi, diventare più grande. Sin dalle origini, anche se, a guardare indietro, si fa fatica a crederci.

New Amsterdam, la cui fondazione sull’isola di Manhattan si fa risalire al 1625, agli inizi era solo un piccolo centro di smistamento commerciale creato dalla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali. Gli olandesi già da dieci anni spingevano alcune delle loro imbarcazioni in questa zona del mondo scarsamente popolata rispetto alla media dei territori europei, e commerciavano nella vasta area che si estende tra i fiumi Delaware e Connecticut. Pur se la loro presenza stabile era minima, e concentrata nell’area oggi occupata dalla capitale dello Stato di New York, Albany (Fort Orange), gli olandesi rivendicavano quel territorio come New Netherland. Nella primavera del 1624 la “Nieu Nederlandt”, una nave con a bordo un centinaio di profughi Valloni divisi in trenta famiglie, aveva fatto sbarcare alcune di queste su Noten Eylandt (oggi conosciuta come Governors Island), la piccola isoletta a sud di Manhattan, mentre le altre famiglie avevano proseguito verso Fort Orange. L’anno successivo i Valloni di Noten Eylandt decidono di accamparsi sulla vicina isola più grande, che chiamavano Manna-hata, prendendo come spunto una parola usata dalle tribù Munsee che già vivevano nell’area. Dal quel lontano 1625 qui costruiscono case più stabili e pure una piccola fortezza per difendersi, che chiamano Fort Amsterdam. 

Nel 1626, secondo quanto lasciato scritto da un mercante di rientro in Olanda, acquistano l’isola dai “selvaggi” per 60 fiorini. Non esiste ad aggi alcun documento che provi l’avvenuta vendita per quella cifra, ma sembra ormai appurato dagli storici che un qualche scambio con le tribù indiane sia in effetti avvenuto. A metà Ottocento inizia poi la leggenda che gli olandesi si sarebbero comprati l’isola per l’equivalente di 24 dollari. Tenuto conto dell’impressionante trasformazione subita in un paio secoli da quell’isola ricoperta di foreste, e in cui vivere era difficile, la leggenda è stata usata per denigrare le tribù, protagoniste del “peggior affare immobiliare della Storia”. Ma anche per prendere in giro gli olandesi, che avrebbero speso denaro per comprare qualcosa che non potevano in realtà possedere. I 24 dollari della leggenda, ripetuta immutata per anni e anni, non sono mai stati rivalutati. Ma è ragionevole pensare che nel 2013, anno del mio meno storico arrivo a New York, quei 60 fiorini fossero pari a circa 5000 dollari. Quei primi coloni di New Amsterdam commerciavano pelli di castoro con le popolazioni native e poi le rivendevano in Europa. Non era nemmeno un commercio particolarmente remunerativo (non come spezie e schiavi), e per anni le cose sono andate male.

A metà del Seicento, quando il nuovo Direttore Generale di New Amsterdam, Peter Stuyvesant (noto per avere una gamba di legno a seguito di una ferita in battaglia), ha iniziato a mettere ordine nella colonia con pugno decisamente duro, la città contava circa 1.500 persone. Per avere un po’ di prospettiva, basti pensare che Milano, in quegli stessi anni, era già una delle principali città europee, con oltre 120.000 abitanti, e poco meno di 40.000 ne aveva Torino. Quando nel 1664 New Amsterdam si è arresa agli inglesi che stavano consolidando le loro colonie nordamericane, ed è diventata New York, era pur sempre una piccola città di 2500 persone, che vivevano già schiacciate nella punta di Manhattan. Nell’intero territorio colonizzato inizialmente dagli olandesi, e che si estendeva per circa centocinquanta chilometri fino a Fort Orange, vivevano in tutto 9000 persone (compresi gli schiavi), distribuite in diversi piccoli insediamenti. Tra questi c’era anche il villaggio di Breuckelen, fondato nel 1635. Ancora agli inizi del Settecento, la piccola città poi divenuta Brooklyn con gli inglesi non arrivava a 2000 abitanti. Ma quella stessa Breuckelen di quell’ennesimo gruppo di visionari olandesi, con la fissa per il commercio, in poco meno di quattro secoli di vita ha quasi doppiato la popolazione di Milano e più che triplicato quella di Torino.

New York è una città che muore e rinasce senza sosta. È sempre stato così nella sua Storia, tra guerre, incendi, rivolte sociali ed episodi di brutalità razziale che nel Settecento sembravano invece usciti dalle cronache medievali europee. E poi gente arrivata in catene, contro la propria volontà. Gente che scappava dalla miseria. Non è mai stata una passeggiata, quaggiù. Ma, volente o nolente, è sempre stata una città tollerante, che praticamente ha accolto chiunque arrivasse quaggiù. Agli olandesi interessava solo fare affari e che nei propri insediamenti non ci fossero grane. Gli inglesi puritani di Boston (fondata come vera e propria città cinque anni dopo New Amsterdam) obbligavano all’osservanza religiosa e mettevano al bando chiunque non si adeguasse. Nei primi sette anni di New Amsterdam gli abitanti, pur credenti, non si sono mai presi la briga di costruire nemmeno la più piccola chiesa. 

Quando Peter Stuyvesant era Direttore Generale, a metà del Seicento, in città si parlavano 18 lingue, tra cui: inglese, francese, portoghese, irlandese, tedesco, spagnolo e polacco. Stuyvesant non era contento, temeva che quella babele sarebbe diventata ingovernabile. Invidiava gli inglesi e i francesi, le cui colonie erano aperte solo ai loro compatrioti. Stuyvesant e i suoi collaboratori calvinisti erano preoccupati ancora di più dai diversi credi religiosi praticati in città. Lamentavano che tra gli olandesi si annidassero luterani, mennoniti, papisti, puritani e pure “atei sotto le mentite spoglie di cristiani”. Vedevano come una disgrazia il possibile arrivo degli “ostinati e inamovibili ebrei”. 

Quando nel settembre 1654 sbarcano a New Amsterdam e chiedono asilo 23 ebrei sefarditi in fuga dall’inquisizione spagnola in Brasile, Stuyvesant si oppone e chiede supporto al consiglio d’amministrazione della Compagnia. I richiedenti asilo presentano una sorta di contro-ricorso, chiedendo di poter vivere nella comunità e contribuire al suo benessere come tutti gli altri. Il consiglio d’amministrazione, nel quale peraltro siedono anche importanti uomini d’affari ebrei, dà loro ragione, ammonisce Stuyvesant per la sua intolleranza e gli ricorda che sta gestendo una colonia commerciale, non una congregazione religiosa. In quello stesso settembre 1654, sebbene sarà ancora loro proibito di professare la religione in pubblico, si terrà in un’abitazione privata quella che è considerata la prima celebrazione di Rosh Hashanah in Nord America.

Tra improvvise accelerazioni e brusche frenate, tra progressi sociali e opposizioni, New York è sempre stata questa città di perpetuo cambiamento. Qui tutto si crea e si distrugge a velocità impressionante, anche quando non ci sono episodi drammatici o contrasti violenti ad incrementare il suo passo deciso. La Storia aiuta a mettere insieme momenti singoli, a vedere lo stesso filo conduttore che lega il passato al presente della città. La Storia di New York, punteggiata da crisi ricorrenti, aiuta a capire perché nemmeno una tragedia immane come l’Undici Settembre abbia piegato il carattere di questa città. E perché chi oggi si illude su un prossimo declino di New York, profetizzato già tante volte anche nel secolo scorso, stia probabilmente sbagliando i suoi conti. Scommettere contro il futuro di New York è sempre rischioso, e finora non ha mai pagato.

In questa città dove anche il minuto è solo un istante, si guarda sempre avanti. Pure le lunghe avenue, senza quasi ostacoli all’orizzonte, sono fatte per lasciare volare lo sguardo. Magari a volte si fanno sbagli atroci. Ma quaggiù quando si demolisce qualcosa, lo si fa sempre non per cancellare il passato, quanto per costruire un futuro che si è convinti sia migliore. Fa parte di quella più ampia propensione al rischio che caratterizza tutta l’America. Già solo io, in questi miei primi dieci anni da newyorchese, ho visto panorami venire su dal nulla e altri svanire, nel mio isolato così come in tanti altri per tutta la città. Ed è solo la parte più visibile di cambiamenti quotidiani che avvengono a tutti i livelli, dalle relazioni di prossimità ai flussi di milioni di persone. Quando non cambi casa tu, ci pensano i tuoi vicini sempre nuovi a ricordarti che il cambiamento è la regola. La stessa che i bambini vivono da quando mettono piede a scuola: ogni anno una nuova maestra e nuovi compagni di classe.

SE LA STORIA SIAMO NOI, ALLORA SIAMO MESSI BENE

In questi dieci anni ho cercato nei quartieri e nelle strade i segni della Storia di New York. L’ho letta in decine di libri, l’ho vista nei documentari. Una volta arrivato quaggiù, ovvio che prima o poi l’avrei studiata, per la mia innata curiosità. Era così anche quando vivevo a Torino e attorno ai trent’anni è venuto fuori il desiderio di conoscere di più il passato della città dove avevo radici. Ho iniziato a comprare e leggere libri sulla storia di quella città che era nata come Augusta Taurinorum. Passare davanti alle Porte Palatine come nulla fosse non mi bastava più. Non era nemmeno un caso: da ragazzino, mentre la maggior parte dei miei compagni di classe collezionava le figurine Panini dei Calciatori (e da buon granata avevo i miei Castellini, Pulici, Graziani…), io avevo soprattutto la fissa delle figurine sulla Storia, e avevo pure obbligato mio padre a portarmi in una fabbrica di Via Sansovino dove le stampavano, così avevo potuto finire la mia raccolta senza stressarmi in edicola ogni sabato pomeriggio. A New York ho solo accorciato i tempi della mia educazione sentimentale per la città, o quelli della semplice infarinatura storiografica: perché sono vecchio e perché fare la guida, anche quella inutile, un po’ ti obbliga a grattare la superficie e scoprire quello che c’è sotto. 

E io, irrilevante puntino a New York, dentro questo quadro senza cornice e a cui viene aggiunta sempre nuova tela; perché pensando alla città che da dieci anni chiamo casa mi sono poi perso dietro questa cosa della comicità? Solo perché quando ripercorrevo tra me e me alcuni momenti di questo mio primo decennio qui a New York, e delle cose che ho fatto quaggiù, mi è venuta in mente la battuta perfetta di due vecchi milanesi e l’ho presa in prestito. Nei quasi quattro secoli di storia di questa città, io non ho realizzato niente di che. Ma decidendo di venire quaggiù, ho comunque fatto la mia piccola parte pure io, ho aggiunto in qualche modo un tassello all’esperimento. E allora? Beh, come avrebbero detto Cochi e Renato: bene, bravo, sette più!

Con mia moglie e mio figlio sono arrivato a New York il 7 febbraio del 2013. Siamo giunti in città dopo tre mesi trascorsi a Miami e dopo aver pensato se, una volta deciso di lasciare l’Italia, fosse davvero il caso di mettere radici a San Francisco o a Seattle.

Se non fosse per la cifra tonda dei dieci anni esatti, non ci sarebbe ragione per ricordarlo, quel 7 febbraio 2013. Nessun merito particolare. Solo un momento da festeggiare in famiglia, un piccolo traguardo. Si, celebrazioni in forma privata, senza parata e nevicata di coriandoli lungo il Canyon degli Eroi nell’estremità sud di Broadway.

Quel giorno, come ormai dovrebbe essere chiaro, io ero solo uno dei milioni di immigrati che da mezzo mondo e da quasi 400 anni sono arrivati in questa città, e ci hanno messo radici. L’ennesimo italiano, peraltro. Già solo nel 1900 almeno 2 milioni di connazionali erano arrivati in America e circa un terzo di questi non si è poi mossa dall’area di New York. Anche ad essere cauti, e a prendere i censimenti con tutte le molle possibili, è assolutamente realistico pensare che nel primo decennio del Novecento a New York vivessero tanti italiani quanti a Roma, se non di più. Roma nel 1911 aveva poco più di mezzo milione di abitanti. Mettendo insieme Genova, Venezia e Firenze la loro popolazione complessiva non avrebbe superato il numero di newyorchesi con origini italiane.

Non è che ho la fissa dei numeri. Poi, detta da uno che ancora alle superiori non aveva un gran rapporto con la matematica, non sarebbe credibile. Liceo Scientifico, Signore e Signori, mica di quelle scuole legate alle lingue esotiche o alle belle arti. E non è solo che invecchiando finisco per ripetermi e ripetermi e ripetermi. Il confronto demografico e geografico tra Brooklyn e Milano è diventato uno dei miei tormentoni, e mi ripeto, ripeto e ripeto, a prescindere dalla demenza che magari si starà già avvicinando. È che anche certi numeri, come quelli della popolazione o dell’estensione dei territori, e poi alcune date, magari con qualche dato economico, aiutano a comprendere ciò che altrimenti appare astruso. Anche i numeri possono aiutare a vedere connessioni, fanno emergere immagini più chiare da elementi sparsi e vaghi.

Nei 398 anni di storia newyorchese, cioè dal momento della sua fondazione come New Amsterdam, io mi colloco solamente negli ultimi dieci. Questo mio decennio a New York è pari al 2.5% dell’età complessiva della città. Prendendo per buona l’ipotesi della data di nascita di Torino al 30 gennaio del 9 a.c. (qui trovate tutte le spiegazioni e le obiezioni), io ho vissuto a Torino per quarantatré dei suoi 2032 anni di vita, pari al 2.1% se non ho sbagliato ad usare la calcolatrice. Cosa è possibile comprendere da tutto questo? Non lo so. Mi piaceva solo insistere su quanto siamo minuscoli nello spazio e nel tempo.

CI SONO UN MARINAIO ITALIANO, UN RE FRANCESE, UN MARINAIO INGLESE, UNA BAIA, UN FIUME E…

Quanto alle ricorrenze significative e alle celebrazioni più o meno pubbliche,  invece, so che il prossimo anno, il 2024, potrebbe essere anche più interessante di questo. Almeno per chi quaggiù abbia origini italiane e il cui nome di famiglia non faccia Spedalieri.

Il 2024 segnerà infatti i 500 anni dall’arrivo di Giovanni da Verrazzano nella baia di New York. Nella lunga storia dei navigatori che si sono avventurati fuori dall’Europa per arrivare in Cina via mare, spinti da millemila ragioni (tra le quali, evitare di pagare doppio dazio per le spezie ai mercanti intermediari musulmani e a quelli italiani), pare che il fiorentino sia stato il primo ad entrare nella baia di New York. Già quel “pare” farà sobbalzare sulla sedia più di qualcuno. No, dai, ormai è assodato che è stato lui, no? Comunque  sia, il vero guaio di Verrazzano, e quello dei francesi che gli hanno pagato il viaggio lungo le coste del Nord America per trovare l’agognato passaggio occidentale verso la Cina, è che lui ha solo messo il naso nelle acque della baia. Avrà forse pure visto il fiume che terminava dentro questa grande baia, o lo avrà almeno intuito. Ma non ha pensato di navigarlo. Per quello bisognerà aspettare altri 85 anni e un navigatore inglese pagato dagli olandesi: Henry Hudson. Il fiume più importante di New York porta il suo nome.

Stiamo ovviamente parlando di beghe tra navigatori e sovrani d’Europa. Le popolazioni Lenape che quaggiù hanno vissuto per migliaia di anni prima dell’arrivo degli europei, e tra loro le tribù Munsee, di sicuro conoscevano il fiume e lo navigavano. Munsee, o genti di Minisink. Quest’ultimo nome, come Manhattan, esiste ancora oggi e così è chiamata una piccola città newyorchese che si trova quasi nel punto dove gli Stati di New York, New Jersey e Pennsylvania convergono. Poco distante c’è la vasta riserva nazionale del Delaware Water Gap. Ecco, è laggiù che forse bisogna andare per avere un’idea di cosa potesse essere la Manhattan dove sono arrivati i marinai di Henry Hudson e poi gli olandesi.

Oh, mi raccomando! Su questo blog si dicono cose vere e pure tante scemenze. Se per qualche assurda coincidenza siete degli storici di professione caduti qui sopra per colpa di qualche algortimo, non sparate sulla Guida Inutile (ché tira a campare come tutti) ma fate con tutta tranquillità una bella pernacchia. Non mi offendo. Se la futura intelligenza artificiale non sarà in grado di fare la tara, peggio per lei. Se siete dei comuni lettori, procedere invece pure voi come marinai curiosi, e prendete sempre con un sorriso quello che scrivo qui sopra, con un pizzico di sano dubbio. Non usate mai le mie parole per corroborare tesi storiche. Mai, mai, mai. Se siete studenti, non sognatevi di fare copia e incolla, e poi magari vi incazzate se qualcuno strappa la vostra bella ricerca e la bolla come il frutto di stravagante ignoranza. 

Io, ovviamente, potrei levarvi dalle grane e segnalarvi bibliografia, mappe, musei, articoli su riviste di storia e geografia. Servirebbe a ben poco. Accettare la versione più nota dei fatti o metterla in discussione non ha oggi un grandissimo valore pratico. Di sicuro, non ne ha quaggiù. I francesi, gli olandesi, gli inglesi e pure gli italiani, da sempre hanno fatto parte della Storia di New York e di quella americana. Insieme a tantissimi altri, dalla Germania alla Cina, passando per il continente africano e il subcontinente indiano, tutti loro sono qui diventati Americani. Magari Giovanni da Verrazzano, pure giustamente ricordato dalla Storia e onorato con statue e ponti, non è stato così decisivo per le vicende di questa Nazione. Ma poco più di quattrocento anno dopo il suo passaggio in zona, nel 1934 un altro italiano è diventato sindaco di New York. Fiorello La Guardia, con papà cattolico di Cerignola e mamma ebrea triestina. Uno dei sindaci più importanti che questa città abbia mai avuto.

Giovanni da Verrazzano avrebbe intuito la presenza di ricchezze nei dintorni della baia da lui chiamata Angoleme, ma poi non si è addentrato oltre. Questo, almeno, è quello che dice con tanto di note il testo a lui attribuito e conosciuto come “Lettera a Francesco I”, il Re di Francia che aveva finanziato la sua spedizione da Dieppe nel 1523. Il documento è stato scoperto dal Professor Alessandro Bacchiani nel 1908 a Roma, negli archivi privati della famiglia nobile Macchi di Cellere (da cui deriva anche il nome più accademico della missiva, nota come “Codice Cellere”). 

Ancora nell’Ottocento, studiosi americani credevano che il viaggio di Verrazzano fosse una pura invenzione. A metà del Cinquecento in un libro italiano scritto da tal Ramusio si parlava di una lettera a Francesco I, la si riproduceva, ma non si forniva alcuna prova del documento. Non se ne trovava traccia negli archivi francesi, che pure avrebbero dovuto essere tra i primi interessati. Nella Storia di Francia non se ne faceva menzione, e lo stesso valeva per il viaggio e le scoperte. Quando la Francia reclamava territori nordamericani non lo faceva mai sulla base dei viaggi di Verrazzano. Chi poi, tra gli studiosi francesi del Seicento iniziava a citare il navigatore fiorentino, sostanzialmente si riferiva paro paro al lavoro di Ramusio, senza indagare più di tanto. Per molti, Verrazzano era considerato un corsaro e basta. Anche in Italia, sempre nell’Ottocento, gli studiosi faticavano a trovare informazioni sulla famiglia di Verrazzano. Fino a quando lo stesso Bacchiani, nel 1925, dopo aver scavato in tutti i possibili archivi privati immaginabili, sentenziò d’essere “in possesso di quasi tutti i dati della vita dei Verrazzano”.

Con i marinai del Cinquecento, e pure quelli del secolo successivo, il problema non era solo quello di fidarsi, come sempre, delle loro promesse (lo so, battuta insulsa, che potrei evitare); ma anche di fidarsi e basta di quel che avevano davvero visto e scoperto, e dei loro racconti delle popolazioni indigene che incontravano. Quando i navigatori scrivevano, e lasciavano effettiva traccia dei loro scritti, quegli stessi erano e sono stati presi come unica prova delle loro imprese. Non ci sono altre testimonianze o documenti. Prendere o lasciare. 

Chi ha studiato riga per riga il Codice Cellere ha riconosciuto in alcune delle descrizioni attribuite a Verrazzano alcuni specifici luoghi della geografia americana. Quando il navigatore fiorentino scrive di “un sito molto ameno posto in fra dui piccoli colli eminenti, in mezo de quali correva al mare una grandissima riviera”, farebbe riferimento proprio alle alture di Staten Island e della vicina Brooklyn nel punto più stretto della baia di New York, che prende ora il nome di Narrows. Il grandissimo fiume sarebbe l’Hudson, che lui avrebbe quindi visto prima del navigatore inglese da cui prende il nome. Perché nella lunga lettera di Verrazzano non ci sia menzione di ancoraggi della nave durante la notte, e come abbia potuto non vedere l’ingresso alla baia di Chesapeake in Virginia, visto che stava cercando un “passaggio”, rimane tra le tante cose da capire. Non sapremo poi mai davvero se Verrazzano, quando nella baia di New York (Angoleme) pensava d’essere in un lago, abbia intravisto Governors Island o tantomeno Manhattan. Sappiamo che si è fermato lì e non ha proseguito.

UN POPOLO DI STATUE E PONTI

Non si tratta, ovviamente, di dare voce a chissà quale complotto o di negare il valore delle esplorazioni di navigatori come Verrazzano e altri. Questi uomini, pur ambiziosi, si muovevano con mezzi limitatissimi e in territori sconosciuti. Si tratta solo di comprendere come collocare le loro imprese in maniera corretta nella Storia. Ricordandosi che un po’ di vanto patriottico (anche quando non becera propaganda), è da sempre a tutti le latitudini all’ordine del giorno. Io, poi, sono l’ultimo degli ultimi a poter dire chissà che. Mi limito solo a leggere, per puro piacere e curiosità, libri e vecchi articoli di giornale. Quando nella Storia dell’America e di New York ci sono di mezzo italiani, la cosa diventa per me ancora più interessante. In una Nazione di immigrati e in una metropoli globale c’è spazio per i singoli episodi di orgoglio nazionale. L’esperimento americano è tenere tutto quanto sotto lo stesso tetto, le etnie, le razze e le culture più disparate. La sintesi offerta dagli Stati Uniti, pur imperfetta e tra costanti scossoni e malcontenti, continua però a funzionare. Con la stessa estrema diversità che già spaventava ai tempi di Stuyvesant, questa società dove tutti vogliono far sentire la loro voce è comunque sempre più prospera e pacifica di tante altre molto meno eterogenee, per non parlare di quelle autoritarie. Anche New York, con i suoi tira e molla, i progressi e i balzi all’indietro, è ancora qui. Perché c’è sempre stato spazio per tutti, anche nelle celebrazioni dell’orgoglio di patrie lasciate alle spalle. È stato così anche per gli italiani.

Verrazzano, alla fine, tra dubbi e obiezioni ha trovato il suo riconoscimento più significativo proprio a New York. Nemmeno nella sua patria nativa ha avuto gli onori che gli sono stati tributati quaggiù. Se si esclude forse Firenze, è difficile trovare una grande città italiana in cui al navigatore non sia stata dedicata se non una qualche via o piazza periferica. Colombo e Vespucci hanno avuto maggior fortuna, e i loro nomi sono finiti su strade centrali o arterie trafficate (tipo “la” Cristoforo Colombo a Roma). Nessuno, poi, ha mai messo in dubbio il valore delle navigazioni del secondo. Fin da subito i cartografi del Cinquecento, scrivendo “America” sulle loro mappe, hanno riconosciuto che Vespucci fosse stato il primo a capire d’essere andato a sbattere contro un “nuovo mondo” e non l’Asia.

Nella New York del primo Novecento, Verrazzano è riuscito a mettere un piede nella porta all’ultimo minuto, evitando così di passare in secondo piano o essere dimenticato del tutto. Negli Anni Sessanta, ha poi chiuso definitivamente la partita, entrando un po’ alla volta nella memoria dei newyorchesi.

Nel 1909 la città aveva deciso che dal 25 settembre all’11 ottobre avrebbe celebrato contemporaneamente i 300 anni dalle esplorazioni di Henry Hudson e il centenario del primo piroscafo a ruota usato da Robert Fulton per risalire il fiume Hudson fino ad Albany (la qual cosa era avvenuta in realtà nel 1807). Per le due principali associazioni di italiani a New York si trattava di un affronto alla memoria di Verrazzano, ritenuto il vero scopritore del fiume impropriamente nominato Hudson, “checché ne dicano certi… storici americani” (come riportava enfaticamente il quotidiano di San Francisco “L’Italia” nel settembre del 1909). La “colonia” italiana di New York doveva correre ai ripari.

Adesso, a un secolo di distanza, possiamo sorridere leggendo queste storie. Occorre però non dimenticare quale fosse la più generale atmosfera culturale in cui si sono sviluppate. Sono gli anni della crescita del nazionalismo in Europa, lo stesso che da lì a breve porterà alla Prima Guerra Mondiale. Dopo un secolo di espansioni imperiali, gli europei erano in relativa pace, almeno formalmente. Ma un paio di decenni senza conflitti non avevano cancellato le rivalità territoriali ed economiche. Gli Stati europei crescevano in popolazione e così la loro forza industriale. La competizione per le risorse economiche e territoriali alimentava i sentimenti di superiorità nazionale, e viceversa, in un ciclo che poi nessuno ha fermato. “La Grande Illusione” di Norman Angell, libro tutto centrato sui pericoli del riamo di inglesi e tedeschi, e sugli immensi costi di un potenziale nuovo conflitto europeo, esce nel 1909. Se Angell fosse poi davvero pacifista, come avrà forse pensato negli Anni Trenta il regista francese Renoir, è un altro discorso. Non divaghiamo ancora di più.

Per fortuna degli italiani di New York nel 1909 esce soprattutto lo scritto di Bacchiani dedicato a Verrazzano e alla testimonianza del suo viaggio. Il Codice Cellere è la prova definitiva che il fiorentino, risalendo la costa nordamericana, è stato il primo a vedere il grande fiume newyorchese, non Henry Hudson da Albione. Uno storico americano, Lawrence Wroth, nel 1970 scriverà un libro sui viaggi di Giovanni da Verrazzano e, senza il benché minimo cenno di ironia, definirà letteralmente “tempestivo” lo scritto di Bacchiani. Wroth, con l’ausilio della Yale University Press, pubblica il suo libro per la Pierpont Morgan Library. Il Codice Cellere dal 1911 fa parte della vasta collezioni di manoscritti e opere d’arte acquisite da J. P. Morgan. (E, tanto per aggiungere un po’ di collegamenti, il conte e diplomatico Vincenzo Macchi di Cellere è stato ambasciatore italiano negli Stati Uniti dal 1914 al 1919).

Sollecitati dal quotidiano locale “Il Progresso Italo-Americano” e dal suo fondatore, il banchiere Carlo Barsotti, gli italiani di New York fanno partire una raccolta fondi per erigere una statua in onore di Giovanni da Verrazzano. Il 13 settembre 1909, in una cerimonia che “avrà fatto rivoltare Henry Hudson nella tomba”, come scriveva il giorno dopo il New York Daily Tribune, alla presenza di Barsotti e dello scultore Ettore Ximenes, a Battery Park viene posta la prima pietra sulla quale verrà poi innalzata la statua, che nel frattempo era in lavorazione in un laboratorio di Greenpoint, a Brooklyn. Verrazzano “è venuto a New York”, dice Barsotti nel suo discorso. “Ha visto il fiume Hudson anche se non lo ha esplorato”. 

Il 6 ottobre, quasi 20.000 persone marciano da Madison Square Park a Battery Park e di fronte a circa 5.000 persone, la statua di Verrazzano viene finalmente scoperta. Secondo le cronache, prima di leggere la famosa Lettera a Francesco I, nel discorso ufficiale alla folla l’avvocato Louis Steckler, dice: “non c’è dubbio che Verrazzano abbia scoperto il fiume Hudson e che Henry Hudson sia stato il primo europeo a navigarlo”. Un colpo al cerchio e uno alla botte, per vivere tutti felici e contenti.

Oltre che a Giovanni da Verrazzano, se a New York abbiamo monumenti dedicati a Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi, Dante Alighieri e Giuseppe Verdi lo dobbiamo proprio al cavalier Carlo Barsotti. Quanto a Verrazzano, dopo lunga attività di pressione sui politici e sull’opinione pubblica da parte della Italian Historical Society of America, nel 1960 il Governatore dello Stato di New York Nelson Rockefeller firma il decreto che dedica al navigatore fiorentino il nuovo ponte allora in costruzione tra Staten Island e Brooklyn (verrà aperto nel 1964). Il nome ufficiale era “Verrazano-Narrows”, con una sola “z” come nella pronuncia americana. All’epoca i pregiudizi nei confronti degli italiani erano ancora ben presenti e molti chiamavano il ponte semplicemente Narrows Bridge. Col tempo le cose sono cambiate e ora tutti parlano semplicemente di Verrazzano Bridge. Dal 2020, per decreto firmato dal Governatore dell’epoca, Andrew Cuomo, l’errore è poi stato finalmente corretto una volta per tutte, aggiungendo la “z” mancante. Mica pizza e fichi.

EPILOGO

Questi miei primi dieci anni di vita a New York, che volevo in qualche modo ricordare, potevano essere l’occasione per ripercorre alcuni episodi personali legati alla città. Ma l’ho già fatto tante volte, su questa Guida Inutile e sul vecchio blog che è ancora vivo ma sul quale non scrivo praticamente più.

Potevano magari dare spazio, questi dieci anni newyorchesi, ad una lettera d’amore per questa incredibile città che chiamo casa. Ma ho già dichiarato più volte pubblicamente il mio amore a tutta New York, anche quando mi fa arrabbiare di brutto. Poi, molto spesso, le mie farfalle per New York le sento in luoghi che difficilmente rispondono al canone di cartolina romantica. Forse, ora potrei davvero scrivere una Guida di New York, di quelle serie, con tanto di descrizioni dei quartieri, della loro storia, dei luoghi da visitare e delle curiosità. L’immodestia non mi manca. Solo una questione di interesse a scriverla, questa guida “non” inutile, che ancora non c’è.

Partire invece da una battuta di Cochi e Renato per arrivare a Giovanni da Verrazzano, passando per le 18 lingue parlate a New Amsterdam, è venuto fuori assolutamente naturale.

Chiudo con un ultimo fatto storico e con una barzelletta.

A Battery Park, per l’orgoglio di tutti i newyorchesi di origine italiana, non c’è solo il monumento a Verrazzano. C’è anche una targa che ricorda il primo italiano che abbia mai messo piede quaggiù. Era il 2 giugno 1635 quando Pietro Cesare Alberti (Peter Caesar Alberti) sbarcava a New Amsterdam. Un giovane veneziano poco più che ventenne, originario di Malamocco e figlio di un segretario del tesoro ducale di Venezia. Era l’unico marinaio italiano di una nave partita dall’Olanda e che aveva viaggiato lungo la costa occidentale africana e poi in Brasile, in Guiana e in Virginia. Una volta riuscito finalmente a sbarcare a New Amsterdam, Alberti aveva provato a fare causa al capitano della nave per via di paghe non ricevute. Il suo nome si trova registrato sotto diverse forme, tra le quali: Cicero Piere, Cicero Alberto, Peter the Italian, Caesar Albertus, Pieter Mallemmook. Nel 1939 si muove a Long Island, in quell’area di Brooklyn che oggi è occupata dal quartiere di Fort Greene. Qui dopo qualche anno diventa proprietario di una tenuta di circa 100 acri. Si sposa con un’olandese e hanno sette figli (uno muore ancora da piccolo). Nel 1655 lui e la moglie vengono uccisi dagli indiani in un agguato. I figli e i discendenti vengono chiamati col cognome di famiglia, che negli anni, prima di tornare ad Alberti, prende anch’esso diverse forme, da Albertus a Burtus e Burtis. I figli si trasferiscono in quello che oggi è il Queens, dove ancora agli inizi del secolo scorso esisteva una Alburtis Avenue che probabilmente aveva qualche legame con la famiglia. 

Insomma: Pietro Cesare Alberti, uno di noi.

E ora, da buon ultima, la barzelletta. È una piccola barzelletta sul carattere dei newyorchesi. Le storielle non si dovrebbero mai spiegare, lo so. Ma senza conoscere un minimo di riferimenti culturali, a volte non si riesce capirle o apprezzarle del tutto. Diciamo che noi newyorchesi non siamo particolarmente noti per le buone maniere, ecco. Per il resto degli americani questa è forse la città più maleducata che esista. Nella barzelletta si fa riferimento anche al Texas, forse uno degli stati più ricchi di tutta l’Unione e dove tutto è sempre più grande della media già fortunata a cui si è abituati qui in America. 

Allora, ci sono un texano, un russo e un newyorchese. Entrano in un ristorante in Francia. Una cameriera molto gentile li accoglie. “Signori, vi devo chiedere scusa. A causa del dilagante Morbo della Mucca Pazza, al momento non siamo in grado di offrire piatti di carne nel nostro menù, perché in tutta Europa c’è penuria di bovini sani”.

Il texano, perplesso, domanda: “cos’è la… penuria?” Il russo, anche lui confuso: “cos’è la carne?” Infine, si gira bruscamente il newyorchese: “cos’è chiedere scusa??”

Saluti a tutti. E baci da New York… (si fa per dire).

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