Gente di New York #14 – Kai, che spala la neve e deve ♥️ NY
Come si fa a non amare questa città??!? Si fa, si fa… Ma per chi deve portare a casa la pagnotta, anche New York val bene uno slogan.
È un freddo mattino di fine gennaio e in giro ci sono ancora meno turisti di quelli a cui ci stiamo abituando nella pandemia perpetua. “Le dispiace se le faccio una fotografia?”. Mi fermo lungo 6th Avenue e rivolgo questa domanda ad un uomo tutto intento a spalare il marciapiede mentre la neve non accenna a diminuire dopo la bufera notturna. Alza il pollice per dirmi che va bene, si mette in posa e io scatto. Ci presentiamo.
Kai lavora qui a Midtown Manhattan, vicino Herald Square, per un piccolo mercato all’aperto composto da poco più di una dozzina di bancarelle che vendono gioielli, borse, formaggi e ogni altro souvenir che un qualunque turista muore dalla voglia di acquistare a New York. In realtà, si tratta di piccole capanne che nella loro ordinaria sciatteria dovrebbero ricordare i romantici mercatini natalizi del nord Europa.
In un primo momento avevo pensato di scattare una fotografia senza farmi notare. Poi ho cambiato idea. Volevo fare almeno due parole con quest’uomo che in una giornata tanto infame, come lo sono tutte quelle in cui nevica a queste latitudini, indossava una felpa con lo slogan locale più tradizionale e conosciuto in mezzo mondo: I♥️NY. Già amare senza riserve New York in un giorno qualunque richiede come minimo una certa miopia, se non un pronunciato astigmatismo. Sotto la neve? È roba da ipovedenti. Ma Kai non può permettersi il lusso del sarcasmo. Lui, per pagare le sue bollette, deve sempre impersonare il cartellone pubblicitario per il quale i visitatori hanno pagato il prezzo del casello autostradale o del biglietto aereo.
Kai lavora da cinque anni per la società che gestisce questo e altri due mercati simili, vicino Times Square e in Bryant Park. Ma è il suo primo anno in quello che prende il nome da Herald Square. “È strano vedere così pochi turisti in questo periodo dell’anno”, mi dice mentre riprende a spalare il marciapiede per i pochi che si troveranno passare da lì.
Lo slogan “I love NY” è stato creato nella seconda metà degli Anni Settanta da un’agenzia pubblicitaria chiamata a promuovere il turismo nello Stato di New York. Sebbene sia ancora usato per le campagne di marketing relative a località turistiche sparse in tutto lo Stato, col passare degli anni lo slogan ha finito per identificarsi soprattutto con New York City. In città non c’è negozio per turisti che non venda la classica maglietta bianca con il logo I♥️NY, immancabile quanto la replica della famosa maglietta indossata da John Lennon con la semplice scritta “New York City”.
“Prima di venire in Herald Square facevo tante fiere, quasi ogni mese, soprattutto in Bryant Park. Adesso, invece, aspetto di vedere quel che succederà. Speriamo tutti nella primavera”. Kai sa d’essere una specie di privilegiato, anche se a vederlo faticare sotto la neve non si direbbe. Decine di migliaia di newyorchesi che lavoravano con i turisti hanno perso il loro stipendio e si sono dovuti reinventare, cercando occupazione in altri settori. Dopo due anni di Covid, a New York il tasso di disoccupazione è ancora quasi il doppio della media americana. Avere un impiego nel turismo non è più cosi ovvio come negli anni d’oro pre-pandemia.
E proprio osservando uno come Kai, che in una giornata tanto balorda deve sbattersi per pulire un marciapiede orfano di passanti, penso che lo slogan della sua felpa sia quanto di più inappropriato per rappresentare la vera essenza della città. Si, ci sarebbe almeno un’altra frase tipica, e apparentemente innocente, che potrebbe soppiantare il trito slogan del cuore newyorchese. No, non sto pensando a “fuhgeddaboudit” (ma bravi se lo avete pensato voi).
“Welcome to New York” è il più classico dei saluti che rivolgiamo ai neofiti che arrivano in città per la prima volta oppure a tutti coloro che, dopo la romantica fase di luna di miele, iniziano a prendere confidenza con la città reale, e scoprono che quaggiù non è proprio tutta rose e fiori, anzi. “Benvenuti a New York”, ovviamente, può essere davvero anche solo il modo più gentile per accogliere amici e visitatori nella nostra casa. Ma quaggiù lo usiamo soprattutto con tono sarcastico. Un po’ come dire: benvenuto all’inferno pure tu. Con quel messaggio, e sotto la neve incessante, la felpa di Kai avrebbe molto più senso.
Il mio ambientamento a New York è iniziato senza miele o saccarina. Siamo arrivati in città nel 2013, in un pomeriggio di febbraio, dopo una forte nevicata. Avevamo un passeggino enorme, perfetto per i centri commerciali di Miami ma non per i marciapiedi di quaggiù. La piccola camera che affittavamo a Brooklyn aveva un bagno più grande dell’angolo cottura, e sempre gelido. La prima notte, appena spenta la luce per addormentarci, abbiamo sentito distintamente quello che siamo abbastanza sicuri fosse uno sparo. Ma il giorno dopo ho capito che aveva ragione Frank Sinatra: se ce la fai a New York, puoi farcela ovunque.
Ero andato a fare un po’ di spesa in un piccolo supermercato su Fulton Street, a Bedford Stuyvesant. Sul muro davanti alle casse c’era una foto di Obama. Magari era solo paranoia, ma ero convinto d’essere l’unico bianco nei paraggi. Ad un incrocio affollato, un tizio mi chiede indicazioni per una strada che non avevo mai sentito nominare. Gli rispondo che sono appena arrivato in città e che mi spiace, perché non posso aiutarlo. Lui sgrana gli occhi e mi risponde ridendo: “tranquillo, man! Vivo qui da sempre e non la conosco nemmeno io!”. Era un “Welcome to New York” di quelli calorosi, anche se io non lo sapevo ancora.
Ricordo invece un solo episodio in cui mi è stato rivolto quello che per noi newyorchesi è un autentico “welcome to New York”. Anche se accompagnato da una risata, il tono non era proprio sarcastico, quanto più di compatimento.
Mi trovavo ad Harlem ed era quasi già passato un anno dal nostro trasferimento in città. Ero appeno uscito dalla mensa dove facevo volontariato e stavo andando a prendere la metro per tornare a Brooklyn. I marciapiedi erano coperti di neve e io indossavo i miei soliti anfibi d’ordinanza, scarponi perfetti per proteggersi dall’acqua e pure per aggirarsi in una cucina con enormi pentole sempre sul fuoco, ma non proprio per stare in ammollo. Forse mi sono distratto poco prima di prendere le scale della metro, forse non ho visto dove stavo mettendo i piedi. Sta di fatto che sono finito dentro una pozzanghera di neve sciolta e, istintivamente, mi sono messo a imprecare in italiano. Forse ho anche lanciato un insulto sessista ad una fantomatica “Marianna” che ero convinto fosse una buona donna. Un uomo, che stava cercando pure lui di destreggiarsi sulla quella strada, mi guarda e poi dice: “welcome to New York, man!”.
Al mio decimo inverno newyorchese, e dopo nove anni di vita in questa città che non si lascia mai imbrigliare dentro facili categorie, ho fatto praticamente l’abitudine quasi a tutto. Ma la neve? No, la neve mi sorprende sempre come se fossi un bambino alla prima volta. Io, più di 10 o 20 centimetri di neve, li ho sempre e solo visti in montagna. Qui a New York, almeno una volta all’anno, sono un evento assolutamente normale. “Anche in Italia nevica così tanto?”, mi chiede Kai. Gli rispondo che è molto raro e che tanti italiani vorrebbero venire qui in vacanza a Natale, convinti di trovare una città sotto la neve, come accade nei film. Sorride e continua a spalare
È proprio l’assuefazione a tutto quanto, anche alle cose più incredibili, drammatiche e assurde, che rende sarcastico “Welcome to New York” e un po’ ridicolo “I♥️NY” agli occhi di vive quaggiù. A maggior ragione a due anni dall’inizio della pandemia. Gli uffici sono ancora semi-deserti, le strade di Midtown sono punteggiate da grandi negozi sfitti, i crimini violenti e le sparatorie sono in crescita costante. Eppure ci stiamo abituando a questa nuova normalità, perché è… normale. Anche solo un atto banale come prendere la metropolitana durante il giorno è diventato solo l’ennesimo pericolo da tener presente nel calcolo quotidiano dei rischi che vivere a New York comporta.
Alcune paure sono esagerate e fanno parte della cultura locale newyorchese, risultando incomprensibili a chiunque viva in una città… normale. Come già ripetuto anche in questa Guida Inutile, non è molto probabile essere colpiti per strada da un condizionatore in caduta libera o finire a testa in giù dentro una cantina mentre si cammina sul marciapiede. E bisogna proprio essere sfigati per ritrovarsi la faccia spalmata di merda da un perfetto sconosciuto mentre si è seduti ad aspettare l’arrivo del treno (la qual cosa è realmente successa ad una disgraziatissima signora nel Bronx). Ma da mesi mesi, ogni due o tre giorni, le cronache dei tabloid cittadini raccontano di aggressioni in metropolitana o di violenze ai danni delle donne sui treni. Nei casi più tragici, qualcuno ci ha lasciato la vita dopo essere stato spinto senza motivo sui binari. Altri se la sono cavata con una semplice coltellata al braccio, un innocuo cacciavite nella pancia o un colpo di pistola non andato particolarmente a segno. Viene quasi da rimpiangere i tempi in cui i più estrosi usavano la metropolitana come un divano qualunque, dove potersi tranquillamente masturbare.
Continua a nevicare fitto, qui a Midtown, e i newyorchesi in giro sono pochi, ancora meno dei turisti che possono finalmente godersi la città che hanno sempre vagheggiato. Voglio fare un’ultima domanda a Kai. Ma è di quelle retoriche e cerco di metterci dentro tutto il sarcasmo possibile. “Come si fa a non amare New York in un giorno così?”, gli chiedo mentre gli stringo la mano. Ride e io mi allontano. Cullandomi nell’illusione che sia davvero impossibile non amare questa spugna di città, anche quando sembra solo un vecchio straccio sporco. Perché la verità è che sono quelli come Kai a fartela amare.