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Selvaggia, la ”ragazza copertina” che non ha il sogno americano – Gente di New York #15

I turisti italiani che arrivano a New York non vanno quasi mai nel Bronx, e tantomeno nella Little Italy di Arthur Avenue. Peccato, perché potrebbero scoprire qualcosa in più anche della stessa Italia. Magari parlando con qualche giovane connazionale che quaggiù lavora duro e sogna di ritornare alla casella di partenza… 


25 Agosto 2022

Per augurarmi buon rientro a casa, dopo la mia breve trasferta italiana in Val di Susa, qualche giorno fa un’amica in vacanza in Sicilia mi ha inviato una fotografia con un sontuoso vassoio di cannoli, cassate e altri dolci. Con quella sbruffoneria che sto orgogliosamente affinando da quando vivo a New York, le ho replicato che non saranno mai come quelli che mangio a Brooklyn. Chi legge con regolarità questo blog/guida (i cui aggiornamenti, con la stagione calda, sono diventati assai meno regolari), già sa che questa sfacciata sicurezza di se, che poi sfocia nell’atteggiamento spaccone, è una delle caratteristiche che rendono i newyorchesi alquanto insopportabili anche al resto degli americani. Ma se voi non avete mai goduto il privilegio d’assaggiare i cannoli di Villabate Alba a Bensonhurst (e perché mai dovreste, visto che forse vivete a nove ore d’aereo?), preparati con ricotta che arriva dritta dritta da Palermo, sfidando ogni buon senso economico… naaahhh, fuhgeddaboudit. Comunque, anche quelli della pasticceria Ferrara su Mulberry Street a Manhattan valgono il viaggio.

Oggi, però, io sono di passaggio dalle parti di Arthur Avenue, la Little Italy del Bronx. Decido di mettere da parte il campanilismo metropolitano, e per la mia pausa di mezza mattina decido di regalarmi una puntata da Egidio Pastry Shop, storica pasticceria che dal 1912 si trova nello stesso angolo tra East 187th Street e Hughes Avenue. Un caffè e un cannolo piccolo, giusto per non esagerare, ché a pranzo ho in mente di farmi dei dim sum vicino Madison Square Park (voi prendete nota, lo trovate su 23rd Street senza troppo sforzo, poco distante dal Flatiron Building).

Piccolo cannolo e caffè da ”Egidio Pastry Shop”, nella Little Italy del Bronx

FIRENZE – NEW YORK, ANDATA E RITORNO

Dietro al bancone frigorifero rifornito di paste varie lavorano due ragazze. Una delle due è italiana. Mentre ordino il mio caffè, e il piccolo cannolo d’ordinanza, vorrei fare due chiacchiere con lei. Così, tanto per iniziare a rompere il ghiaccio, le rivolgo una domanda che mi farà sicuramente apparire ai suoi occhi come l’ultimo degli idioti. “Senti… ma qui, in questa Little Italy, si vedono turisti italiani che arrivano dall’Italia?” La prima cosa che vedo io, invece, è il suo volto un po’ perplesso. Credo che la mia voce sia venuta su come un vecchio spot pubblicitario che andava in onda sulle radio locali torinesi negli Anni Ottanta e che, grosso modo, faceva così: venite dalla Maga Greca, perché la Maga Greca è greca e viene dalla Grecia.  Non una piega che fosse una.

Mi risponde con voce gentile, mentre continua il suo lavoro dietro il banco. “No, vengono quasi sempre italiani di qui, italoamericani. E sono prevalentemente persone di una certa età. Magari prima vivevano da queste parti, e adesso si sono trasferiti Upstate o in New Jersey, e tornano di tanto in tanto per fare acquisti.” Mi presento e le racconto cosa faccio di lavoro. Lei si chiama Selvaggia, ha 25 anni e vive qui a New York da cinque con il suo fidanzato. Prima viveva a Firenze e adesso ha un sogno: tornare in Italia.

Le commesse di “Egidio Pastry Shop” nella zona di Arthur Avenue, la Little Italy del Bronx. La ragazza a destra è Selvaggia.

“Non ho il sogno americano. Tanti italiani criticano l’Italia, pensando che solo da noi ci siano problemi. Io non sono così. Non è che non mi piaccia questa città, ma va bene se la vivi da turista. Anche quando parlo di Firenze tanti pensano al centro storico, ma nessuno pensa a Novoli.” Muovendo la mia mano come se stessi disegnando un cerchio in aria, chiedo a Selvaggia se abbia sempre vissuto solo qui nel Bronx, con un sottinteso che non sia proprio il posto più semplice che esista quaggiù. “Qui ad Arthur Avenue, va bene, è sicuro. Ma basta uscire dall’isolato…” Anche il sottinteso di Selvaggia non lascia spazio a troppi voli di fantasia.

L’ERBA DEL BRONX È MENO VERDE

Vengo poche volte, nel Bronx. Innanzitutto, perché è davvero un po’ lontano da dove vivo io, a Brooklyn: almeno 20 chilometri e un’ora di metropolitana nella migliore delle ipotesi. E poi perché è fuori dalle mete tradizionalmente richieste dai turisti italiani che si lasciano accompagnare a visitare la New York meno conosciuta. Però io ci vengo sempre volentieri, e non solo ad Arthur Avenue. Qui nel Bronx, nel bene e nel male, c’è una parte fondamentale dell’identità newyorchese.

Nel Bronx ci sono attrazioni turistiche che valgono la visita, come il grande giardino botanico, lo zoo oppure il cimitero monumentale di Woodlawn, dove sono sepolti personaggi come Herman Melville, Miles Davis e Fiorello La Guardia, il Sindaco che più ha rivoluzionato New York negli Anni Trenta del secolo scorso. Il Bronx, poi, ha un ruolo centrale nella cultura popolare nazionale e in quella della città, perché qui gioca la squadra di baseball più famosa e titolata d’America, i New York Yankees, e perché nelle case popolari del borough è nato l’hip-hop. Ma ancora oggi, pur se sono lontani i tempi del degrado e degli incendi che hanno devastato le sue strade e creato il Bronx pericoloso dell’immaginario collettivo globale, molti quartieri a maggioranza portoricana e afroamericana sono tra i più poveri di tutta la città. E la criminalità violenta, anche se non fuori controllo come tra gli Anni Settanta e i primi Anni Novanta, è però in aumento già da prima della pandemia, e occupa quotidianamente le cronache locali dei tabloid e dei telegiornali. Solo il New York Times fa finta di non saperlo.

“I primi tempi quaggiù non sono stati facili, soprattutto l’esperienza con gli ospedali”, continua a raccontare Selvaggia. ”Lavorando tutto il giorno, poi, è difficile fare amicizie.” Lei ha seguito qui il suo fidanzato, lui lavora per l’impresa di uno zio. “Qui si lavora tanto, e va bene, perché spesso in Italia il lavoro non c’è. Ma la vita è più complicata. Io sono fatta per le città più piccole.”

PAESI DA SOGNO

Non mi sognerei mai di argomentare con questa ragazza a proposito del sogno americano. E la mia esperienza fortunata è sicuramente ben diversa dalla sua. New York, che per lungo tempo è stata solo un luogo di passaggio per chi arrivava pieno di speranze in questo Paese, è a malapena un puntino rispetto alla totalità dell’America. Poco più del due per cento degli americani vive in questa città (anche se quella percentuale triplica considerando che New York è il nucleo di un’area metropolitana da 20 milioni di abitanti). Ancora meno vivono nel Bronx. Bisognerebbe già solo poi definire cosa sia, il “Sogno Americano”. 

Selvaggia, da Firenze a New York, nella Little Italy del Bronx
Selvaggia, da Firenze a New York, nella Little Italy del Bronx

Milioni di americani da oltre cent’anni a questa parte, e immigrati più recenti di tutte le nazionalità, ne hanno realizzato una loro personalissima versione e continuano a realizzarla, nei modi più disparati. Migliorando in generale le loro condizioni di vita, lasciandosi alle spalle metropoli caotiche come New York, Chicago o Philadelphia per costruire da zero, magari nelle vicinanze di quelle stesse aree urbane, delle città più a misura d’uomo, immerse nel verde. Oppure concretizzano quel sogno anche solo acquistando una casa, creando piccole imprese che poi diventano più grandi, o mandando i figli all’università, che poi riescono a trovare lavori più remunerativi rispetto a quelli dei loro genitori. Per altri, invece, quel sogno rimane tale, solo una vaga immagine sfocata. Alcuni, poi, falliscono miseramente nel tentativo, finendo addirittura peggio di quando erano partiti. L’America è da sempre un esperimento complicato e vasto, con estrema libertà d’azione e movimento. E ben poche reti di protezione sociale calate dall’alto dai governi locali. Spesso quaggiù bisogna imparare a crearsi da se anche quelle. La libertà porta immense opportunità, ma anche tante responsabilità e grandi rischi che bisogna assumersi in prima persona. Un’idea che nell’Europa contemporanea non fa parte della cultura popolare e del vissuto quotidiano, e che le ultime generazioni non hanno forse nemmeno intravisto a scuola.

Magari non è quello stesso di Selvaggia, ma anche un certo sogno italiano è condiviso da tantissimi americani. Sin dai tempi del secondo dopoguerra, in cui gli studi cinematografici di Hollywood hanno scoperto il fascino esotico delle vacanze romane. Negli Stati Uniti non c’è rivista o quotidiano o programma televisivo che periodicamente non racconti le Cinque Terre, le colline toscane, le meraviglie della cucina emiliano-romagnola, il vino delle Langhe o il design delle case milanesi, così come cinquant’anni fa raccontavano la vita mondana di Cortina e le escursioni a Capri. Con una disoccupazione che quaggiù in media è sempre circa un terzo di quella italiana, e con redditi pro-capite tra i più elevati di tutto l’Occidente, anche i milioni di americani che non hanno i mezzi economici per investire nel mercato immobiliare italico (come quelli di cui ha parlato recentemente il Wall Street Journal) possono però permettersi, prima o poi, di vivere almeno per qualche giorno il sogno italiano, magari durante quei viaggi europei che non sono così infrequenti, salvo pandemia epocali. Novoli, Mestre o Bagnoli, come intuibile, non rientrano tra le mete dell’esperienza onirica.

SELVAGGIA, UNA VERA “NEW YORKER

Anche se con una certa ritrosia mi concede di scattarle qualche fotografia mentre sta lavorando, Selvaggia non nasconde che la infastidisce essere ripresa. “Però, se vuoi, puoi fotografare quella”, mi dice mentre indica una copertina del New Yorker, incorniciata e appesa alle pareti del locale. “Quella sono io”. Mi racconta che qualche anno fa, durante uno dei periodici tour organizzati nel quartiere, una guida turistica si è fermata in pasticceria mentre era accompagnata da un’amica che lavora come disegnatrice per il New Yorker. Da lì a finire sulla prima pagina di una delle rivista più famose al Mondo il passo è stato breve. Anche se a Selvaggia, quella copertina, non ha portato notorietà, perché pochissimi sanno che quella ragazza è proprio lei. E nemmeno le ha portato qualche contatto utile per quello che invece, prima o poi, potrebbe essere il vero sogno di questa newyorchese un po’ forzata.

Egidio Pastry Shop, Arthur Avenue, Bronx. Selvaggia sulla copertina del New Yorker.
È vero che a Selvaggia non piace farsi fotografare. Però nell’ottobre del 2018 è diventata un disegno per la copertina del New Yorker

Perché a Selvaggia, la commessa riservata cui non piace finire in fotografia, piace però fotografare. “Si, vorrei fare la fotografa di scena, ho studiato per fare questo lavoro”, mi dice con lo stesso tono modesto con il quale mi sta raccontando un po’ della sua vita. Le chiedo d’aiutarmi a capire meglio cosa significhi. Perché io mi illudo d’essere sveglio, intelligente e colto. Ma la verità e che sono solo l’ennesimo ultra cinquantenne lento e ignorante. “È la persona che fotografa cosa avviene sui set cinematografici”, mi spiega con quella pazienza che in genere si dedica agli anziani che faticano a comprendere o ai clienti che hanno bisogno di più tempo per decidere cosa vogliono. 

Dico a Selvaggia che mi piacerebbe davvero aiutarla, ma non saprei come. Quando vivevo in Italia mi vantavo d’avere una vasta rete di relazioni, che potevo sempre attivare in caso di necessità e che avevo costruito in oltre vent’anni. Quaggiù anche per me è stato tutto un po’ più complicato e adesso, mentre le parlo, non mi viene in mente nessuno che qui a New York lavori anche solo lontanamente in quel settore.

La saluto e la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato mentre io finivo caffè e cannolo. Le auguro buona fortuna per i suoi progetti. Quando passerò da Arthur Avenue, tornerò di sicuro a trovarla.

CASSETTI

Riprendo il mio cammino, attraversando alcune di quelle strade che non fanno davvero venire voglia di venire nel Bronx. Ma che ormai, però, rappresentano pure loro la mia New York più familiare. Fatta di modesti negozi di alimentari, odore di fritto che arriva dalle tavole calde, topi che si nascondano tra i sacchi dei rifiuti, treni della metro che corrono sulla testa e si intromettono tra la musica che hai nelle orecchie.

Parlando di sogni con questa giovane donna ad Arthur Avenue mi è venuta in mente un’altra mia amica, anche lei toscana. Un giorno di parecchi anni fa, mentre viaggiavamo entrambi verso Roma, mi disse che il suo sogno nel cassetto era quello di diventare magistrato. Con la stessa presunzione che possedevo già all’epoca, e che a New York ha trovato solo un palcoscenico internazionale per i più talentosi del genere, le chiesi se fosse sicura di non aver sbagliato cassetto. Non mi mandò a quel paese solo per educazione.

Ecco. Io non so nemmeno lontanamente quale sia il vero sogno di Selvaggia, quello più intimo e segreto. Ero solo un cliente in pasticceria, non certo la persona con cui confidarsi. E non so se e quando Selvaggia tornerà in Italia, nella sua Firenze. Ma spero per lei che non lasci cadere nel vuoto l’idea della fotografia. Magari non sarà quella di scena, o forse si, vai a sapere. Io sono solo un newyorchese presuntuoso. E sento che nelle sue parole, anche dietro quel tono modesto, c’era però qualcosa, che è lì immobile, in attesa di poter venire fuori.

La mia amica toscana, alla fine, non è diventata un magistrato, anche se professionalmente è rimasta nel mondo della legge. E io sono contento per lei. Lo sono ancora di più quando vedo le fotografie delle sue imprese in bicicletta, su per i monti più sperduti di mezza Italia. Sorrido tra me e me, pensando che alla fine ha trovato il suo cassetto. E io lo sapevo che ci sarebbe riuscita.

Non avevo dubbi. Perché anche in quel lontano 1999, pur vivendo a Torino e facendo la spola con Roma, ero già un newyorchese maledettamente presuntuoso, sbruffone e spaccone. Ma non lo sapevo ancora.

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