Cosa vedere a Brooklyn #1 | Bed-Stuy e South Williamsburg
Brooklyn, ovvero la New York che fa tendenza. Ma prima d’essere la Capitale Mondiale degli “hipster”, Brooklyn è la casa di tante comunità. Andiamo a vedere dove gli afroamericani confinano con gli ebrei hassidici. Alla fine mangeremo pure, promesso.
Se fosse ancora indipendente, Brooklyn sarebbe la quarta città d’America per numero d’abitanti. Brooklyn ha gli stessi abitanti di Roma ma vivono in un’area grande come Milano. Per 2 milioni e seicentomila persone Brooklyn è casa. E tra questi, con orgoglio crescente, anche l’autore della vostra “Guida Inutile NEW YORK”.
Ormai da anni Brooklyn è al centro delle attenzioni planetarie. Non c’è metropoli, da Parigi in giù e in su, che non abbia il suo caffè o la sua birreria o il suo ristorante “Brooklyn“. Artisti e musicisti d’ogni genere si trovano a Williamsburg, Greenpoint e Bushwick, quartieri dove ogni giovane newyorchese che voglia essere rispettato, e non solo quello “alternativo”, deve mettere piede o, meglio ancora, andare a vivere. A Brooklyn tutto deve essere artigianale, dalla birra al cioccolato passando per la maionese. E passando pure per la salsa piccante.
Con dieci dollari ti porti a casa, spedizione gratis, la Tango Chili Sauce nella edizione limitata per finanziare la campagna elettorale di Bernie Sanders. Sarà pure a Brooklyn il quartier generale della campagna di Hillary Clinton, ma gli hipster non si fanno certo prendere per il naso, al massimo per i baffi. (Oh, comunque la maionese artigianale che fanno a Prospect Heights è notevole).
Non importa se la fama dei quartieri alla moda sia sempre meritata o meno. Quel che l’autore della vostra “Guida Inutile” sa ormai per certo è che l’identificazione del brand “Brooklyn” con tutto ciò che fa tendenza trova un solo muro impenetrabile al Mondo. No, non è la Corea del Nord. È l’Italia. Per gli italiani d’Italia, Brooklyn rimarrà sempre e solo “Broccolino”, con tutti gli annessi di pizza, mafia e mandolino, e non c’è verso di smuoverli, gli italiani d’Italia. Amen.
Senza curarsi minimamente di quello che si pensa in Italia, Brooklyn vive la sua stagione di gloria e contraddizioni, fatta di nuovi ristoranti, nuove birre, nuovi grattacieli e vecchie povertà rese ancora più stridenti proprio da quei nuovi ristoranti e nuovi grattacieli. E dagli immigrati fortunati come noi. La birra non ha colpe. È l’America Per Davvero, nel bene e nel male. E questa è davvero New York, miei cari, cioè una città dove tutto viene tritato velocemente e nulla rimane a lungo una novità. Adesso è il momento di Brooklyn. Meglio: è di nuovo il momento di Brooklyn. L’intelligenza visionaria di New York è stata quella di unire, più di 100 anni fa, sotto un unico tetto un gruppo di isole. Una nuova realtà istituzionale, ma le singole identità sono sopravvissute e quella di Brooklyn è sempre stata molto forte. Se ti chiedono dove vivi, quando sei in giro per l’America, tu rispondi senza pensarci su: “Brooklyn, New York”. Ora, dopo cent’anni, Brooklyn sta solo passando all’incasso. E New York tutta ci guadagna. [ TORINO e MILANO, svegliatevi prima che sia troppo tardi, l’alta velocità è il vostro ponte, perché ponti come quello di Brooklyn si facevano già cent’anni fa ].
I VILLAGGI DI NEW YORK (E BROOKLYN)
Come tutte le grandi città americane, anche New York è composta geograficamente da diverse comunità, che si raccolgono attorno ad identità nazionali, religiose, culturali. La gente vive nei quartieri, spesso si muove dal proprio quartiere solo per andare al lavoro. Questo avviene anche in quel centro dell’Universo Mondo Globale e finanziario che è Manhattan. È come se ci fossero tante piccole città tenute insieme dallo stesso tessuto urbano. Brooklyn, il borough più grande dei cinque che compongono la città, non fa eccezione. Esistono diverse Chinatown, così come quartieri dove vivono prevalentemente russi, altri dove ci sono enclave di cittadini mediorientali o italiani o hipster (!) e così via. Più di 100 le lingue parlate. Anche gli hipster parlano la loro lingua, davvero, totally. Peggio: come dicono loro, “totes”.
Questo insieme eterogeneo di comunità, che una volta veniva definito “melting pot”, si regge su un’idea basilare di tolleranza. L’integrazione che nasce da questo sistema è molto essenziale, è fatta di equilibri spesso precari, anche di contrasti latenti o dormienti. E non ha, come avviene nei Paesi europei di lunga tradizione coloniale (dall’Inghilterra alla Germania, passando per la Francia) l’obiettivo dell’assimilazione culturale, se non per la richiesta di rispettare regole minime di convivenza fissate per legge. L’idea generale di un governo leggero, che permea tutte le istituzioni civili americane, da quelle locali a quelle federali, si fonda su un principio di libertà molto ampio e che viene esercitato in modo altrettanto ampio. La libertà culturale e religiosa quaggiù sono pilastri fondamentali. Tanto per capirci, portando la discussione ad un livello terreno con un esempio pratico. La rigida burocrazia che regola le attività economiche in Italia trova un corrispettivo anche in America e soprattutto a New York. Ma qui sarà più facile trovare una bettola dove andare a mangiare, perché le regole non arriveranno mai al punto estremo di cancellare quella che è anche una espressione di diversità culturale, cosa che peraltro non avrebbe senso nemmeno economicamente. Bettola e mangiare. Ricordatevelo. Perché questa lunga camminata ci porterà con le gambe sotto il tavolo.
Se dopo questa interminabile premessa su Brooklyn e i Massimi Sistemi (f-o-n-d-a-m-e-n-t-a-l-e se volete capire New York, inutile se vi basta fare i turisti mordi e fuggi), avete ancora delle energie, vi portò a fare un giro che darà un senso a tutte queste parole.
Andiamo a Bedford-Stuyvesant, storico quartiere di Brooklyn, e da lì ci muoveremo in direzione nord, per raggiungere gli inizi di Williamsburg. Con tutta la presunzione che mi caratterizza vi posso dire che con questo giro vi immergerete nell’essenza newyorchese e un po’ in quella dell’America odierna. Anche se solo superficialmente, vedremo due comunità che più diverse di così è difficile immaginare: quella degli afroamericani di Bed-Stuy e quella degli ebrei hassidici di South Williamsburg. Una comunità ha una storia di segregazione imposta, l’altra di desiderio di omogeneità e isolamento. Due comunità distinte e con un confine poroso, tenuto insieme dai tanti latino americani che lavorano nella zona.
LA STORICA COMUNITÀ AFROAMERICANA DI BROOKLYN: BEDFORD-STUYVESANT
La nostra passeggiata inizia in Fulton Street, precisamente alla fermata di Franklin Avenue (metro C). Andiamo in direzione est.
Fulton Street, soprattutto nel tratto precedente la nostra stazione della metro, cioè tra Fort Greene e Clinton Hill (dove andremo prossimamente), è un mix di nuove e vecchie attività economiche, edifici malmessi e condomini in costruzione. La Brooklyn bohémienne è arrivata, con i suoi caffè e le botteghe zeppe di prodotti biologici. Ma avvicinandosi a Bedford-Stuyvesant il passato recente di queste zone è ancora il presente di chi vive qui. E almeno tra i residenti di lunga data non sembra esserci il desiderio di negoziarlo con la nuova Brooklyn alla moda.
Quello che per un occhio abituato alla ricchezza ostentata può essere un senso di decadenza, qui trasmesso dai locali vuoti in attesa di nuovi inquilini, o un senso di ordinarietà, trasmesso da alcuni palazzi modesti, improbabili mobilifici o tavole calde caraibiche spartane, per gli abitanti di Bed-Stuy è un senso di forte appartenenza. Giustificato. Perché qui, a saperli cercare, ci sono gioielli. Ma non è solo una questione estetica. Qui c’è ancora la New York che molti vecchi residenti ricordano, quella senza fronzoli, che bada al sodo, diretta. Loro dicono “gritty“. Tradurlo significa già perdere in partenza.
Attorno al 1870, quando la costruzione del Ponte di Brooklyn era iniziata da poco, l’attuale area di Bedford-Stuyvesant si riempie piano piano di nuove abitazioni in mattoni, destinate a sostituire le originali strutture in legno (ancora oggi diffuse in moltissimi quartieri di Brooklyn). In quegli anni Manhattan, soprattutto nell’area della Lower East Side, era abitata da famiglie poverissime, costrette a vivere nel degrado di palazzi dove le condizioni igieniche erano inimmaginabili. A Brooklyn, all’epoca ancora indipendente e ricca, la costruzione del Ponte era vista da molti abitanti con sospetto, per la preoccupazione che anche i poveri dei bassifondi di Manhattan potessero arrivare in città. I brownstone e le townhouse vittoriane in costruzione in quella che ora è la parte est di Bedford-Stuyvesant finiscono però nelle mani di famiglie medie, soprattutto d’origine tedesca e irlandese. Nel quartiere, le cui grandi ville già da qualche anno ospitavano parecchi banchieri di Wall Street, si stabilisce anche un piccolo gruppo di afroamericani. La storia di Bed-Stuy e la sua demografia cambiano radicalmente nel periodo tra le due guerre.
COME NASCE UN GHETTO
Dopo la Grande Migrazione di molti afroamericani dal sud degli Stati Uniti nelle grandi città del nord, con la Grande Depressione del ’29 arriva la perdita di molti posti di lavoro nei cantieri navali. La generale crisi economica, che colpisce tutta New York, costringe molte famiglie medie bianche ad abbandonare il quartiere. I prezzi degli immobili vanno a picco. La linea di metropolitana aiuta molte famiglie afroamericane a trasferirsi qui dalla sovrappopolata Harlem, così come arrivano molti lavoratori che prima vivevano vicino ai cantieri del Brooklyn Navy Yard. Il quartiere perde la sua connotazione di esclusività e inizia ad accogliere italiani, ebrei e altri immigrati. Sono gli anni in cui gli agenti immobiliari spingono le famiglie bianche a svendere, sfruttando la paura che l’arrivo dei neri svaluterebbe gli immobili. Sono gli anni in cui le banche, sulla base di mappe di rischio determinate a livello federale, non prestano denaro alle famiglie che abitano in quartieri considerati insolventi. Questa pratica discriminatoria, che colpisce soprattutto quartieri a forte presenza di afroamericani, identificati in rosso nelle mappe, verrà poi chiamata “redlining” e verrà resa illegale solo 30 anni dopo, nel 1968, a seguito delle battaglie per il riconoscimento dei Diritti Civili.
Ancora negli anni quaranta Bed-Stuy era un quartiere con un’impronta multi-razziale, dove gli afroamericani costituivano solo il 25% della popolazione. Negli anni cinquanta la percentuale raddoppia e negli anni ottanta raggiunge l’85%: a molti afroamericani era preclusa la possibilità di acquistare o affittare case in gran parte di Brooklyn, e Bedford-Stuyvesant era uno dei pochi quartieri disponibili. Negli anni settanta e ottanta, con tutta New York in piena crisi e la criminalità ai massimi storici, arriva l’epidemia di eroina e crack. Per molti, a Bed-Stuy, non sembrano esserci alternative allo spaccio. È il periodo in cui si sviluppa il ghetto. Nella povertà generale e nel disfacimento dei legami sociali solo le chiese sembrano in grado di mantenere una connessione con le persone. Crescono le tensioni razziali, come quelle raccontate da Spike Lee nel suo “Fa la cosa giusta”, aumentate dall’arrivo dei primi “gentrificatori”, cioè dei bianchi che tornavano nel quartiere attratti dai prezzi bassi delle abitazioni. Negli anni novanta, quelli di Rudolph Giuliani sindaco, la criminalità cala vistosamente, in parte per merito delle sue scelte e in parte per fattori economici più generali che hanno interessato tutti gli Stati Uniti, con effetti simili sulla criminalità.
La Bedford-Stuyvesant che possiamo vedere oggi è frutto di questa complicata storia, che non è solo di Brooklyn ma affonda le sue radici nell’America della segregazione razziale. I ghetti nacquero dalla convergenza d’interessi tra i proprietari di case e le politiche governative federali. Bed-Stuy è stato un ghetto, ora non lo è più. Ma rimane un quartiere difficile, lo si percepisce attraversandolo. Un quartiere dove il tasso di criminalità è più alto che in molte altre zone della città. Non c’è più il ghetto, ma certi segni sono ancora visibili, e lo sono ovunque nella complessa e multiforme società americana: così come l’elezione di Obama non ha rappresentato il passaggio dell’America verso una società post-razziale, allo stesso modo le contraddizioni di un quartiere come Bed-Stuy non sono destinate a sparire in fretta. Solo il tempo dirà dove quest’evoluzione porterà.
LA “GENTRIFICAZIONE” DI BEDFORD-STUYVESANT
Da quindici anni è iniziato un altro capitolo a Bed-Stuy. Nuovi giovani immigrati dall’Europa sono arrivati qui attratti dagli affitti vantaggiosi rispetto alla stragrande maggioranza dei quartieri di Manhattan. Ben prima di loro, single e famiglie newyorchesi alla ricerca di case grandi e buoni investimenti. Tante famiglie afroamericane, di fronte alla possibilità di realizzare guadagni un tempo impensabili, hanno venduto i loro brownstone e sono tornate al sud.
Girando per il quartiere, e facendo un po’ d’attenzione, potreste vedere attaccati ai pali della luce dei cartelli scritti a mano: “vendesi casa”. Sono speculari ai cartelli degli agenti immobiliari che recitano: “cercasi case e terreni da comprare”. Negli ultimi dieci anni la popolazione afroamericana del quartiere è calata del 12%, quasi interamente a vantaggio della popolazione bianca. Ora gli afroamericani costituiscono circa il 60% dei 130.000 abitanti del quartiere ed è probabile che il numero continuerà a calare, perché gli affitti per loro sono insostenibili, così come le tasse sulla proprietà. Ma c’è un limite oggettivo, che in qualche modo dovrebbe preservare almeno in parte la storia e la cultura di questo quartiere. A differenza del suo vicino a nord, Williamsburg, dove gli spazi lasciati vuoti dalle fabbriche hanno consentito radicali modifiche urbanistiche e la costruzione di nuovi condomini, modificando così profondamente l’equilibrio demografico del quartiere e aumentando il numero di abitanti, a Bed-Stuy non ci sono questi margini di manovra, perché non c’è stato alcun “rezoning”. E una nuova borghesia afroamericana potrebbe essere in grado di compensare l’esodo delle vecchie famiglie, trovando un nuovo equilibrio.
Avendo presente questa lunga storia sarà più facile capire il senso di estraniamento che si potrebbe provare attraversando il quartiere e avendo la pelle bianca. Così come sarà più semplice capire perché, in questa parte di Brooklyn, un negozio vuoto preoccupa: per una drogheria o una piccola bottega che chiude c’è la fila di chi vuole venire qui ad aprire un bar, creando l’ennesima attività senza reale vantaggio per la comunità, a Bed-Stuy ma non per Bed-Stuy. Come fa notare qualcuno, “sono venuti qui per la cultura del quartiere e ora la stanno distruggendo”. Per un teatro che aspetta di tornare il prossimo anno nella sua casa, ce n’è uno, lo storico Slave, che fra qualche mese rischia di diventare solo un condominio, e pure attraverso una mezza truffa.
Passeggiando per Fulton Street e poi addentrandovi nel quartiere, ricordate che quest’area di Brooklyn non è proprio una zona turistica, sebbene le case attorno a Stuyvesant Avenue varrebbero una deviazione (voi siete liberi di farla). È ancora un’area dove la povertà è visibile. Sarà facile incontrare senzatetto, “homeless”, che trascorrono la loro giornata in strada e solo la sera tornano nei dormitori (“shelters”) attrezzati in case o alberghi in disuso. Non si vedono persone passeggiare con macchine fotografiche degne d’un fotoreporter. Tratteniamo la nostra smania da reportage, perché giustamente non tutti potrebbero apprezzare.
Superiamo Bedford Avenue (ci torniamo più avanti) e continuiamo a camminare verso est. Per andare verso nord prendiamo Nostrand Avenue, girando a sinistra. Se volete vedere le case storiche del quartiere, come dicevo, dovete ancora andare avanti su Fulton, fino all’altezza di Stuveysant Avenue e da lì poi risalire nel quartiere. Io ho fame, voglio andare a mangiare in posto che ho visto agli inizi di Williamsburg, frequentato solo da ebrei hassidici.
Nostrand Avenue vi offre qualche esempio interessante d’architettura, come l’Alhambra, un complesso di appartamenti tra Macon Street e Halsey Street, che risale al 1889. Danneggiato da un incendio nel 1994, l’Alhambra è stato riportato a nuova vita, e ora è abitato da famiglie medie. Vi basterà anche solo deviare un attimo su Halsey Street, andando a sinistra, per apprezzare la bellezza dei brownstone. Continuando la nostra passeggiata, Nostrand Avenue diventa assai meno monumentale.
Arrivati all’angolo con DeKalb Avenue, vi consiglio una sosta nella biblioteca di quartiere, giusto alla vostra destra (Marcy Branch, 617 DeKalb Avenue). Molto meglio che sedersi in un caffè. È un posto semplice, come qualunque biblioteca, nessuna ragione speciale per entrarci. Se non quella che un turista raramente vede come le persone vivono nella loro quotidianità. Già che abbiamo poco tempo e dobbiamo limitarci ad uno sguardo superficiale, uno scaffale pieno di libri vale più di una di torta. Madonna, che ho detto…
Dopo la sosta in biblioteca tiriamo dritto ancora per qualche isolato. Arrivati all’angolo con Myrtle Avenue, svoltiamo a sinistra e torniamo ad ovest. Siamo ancora a Bedford-Stuyvesant, ma a breve noteremo qualche differenza. Inizieremo a vedere uomini e donne vestiti di nero, e così pure i ragazzini. Accanto alle insegne delle bodeghe latinoamericane e del centro d’aiuto per gli alcolisti, troveremo anche delle scritte in ebraico. Ci stiamo avvicinando a Bedford Avenue. La percorriamo in direzione nord, procedendo verso South Williamsburg.
PICCOLA PUNTATA NELLA WILLIAMSBURG DEGLI EBREI HASSIDICI
A New York i confini di un quartiere sono labili e spesso quelli amministrativi non sono riconosciuti da chi ci abita, tanto meno dagli agenti immobiliari alla ricerca di nuovi nomi e acronimi impronunciabili per attirare clienti. Ancora più labili, questi confini, quando una comunità con una forte identità vive dentro quegli ipotetici confini e ci sta stretta. Lasciando alle nostre spalle Myrtle Avenue, e camminando lungo Bedford Avenue, ci avviciniamo all’area dove vive la comunità degli ebrei hassidici. Questo lembo di Brooklyn è l’estremità nord di Bedford-Stuyvesant ma per molti hassidici, cioè la maggioranza di coloro che vivono qui, questa è la “New Williamsburg“. Chiamata così perché questa zona confina con l’omonimo quartiere di Williamsburg che si trova a pochi isolati ed è il vero centro della popolosa comunità. Ebrei ortodossi, gli hassidici sono riconoscibili non solo per il nero dei loro abiti ma anche perché la capigliatura degli uomini prevede spesso lunghe trecce che coprono le orecchie, i cosiddetti “payot“. Durante lo “shabbat” e altre festività gli uomini sposati indossano un copricapo particolare fatto di pelliccia, lo “shtreimel“.
Sono oltre 70.000 gli ebrei hassidici che vivono nell’area sud di Williamsburg. Con la costruzione del Ponte di Williamsburg, nel 1903, molti ebrei abbandonano i bassifondi della Lower East Side per cercare condizioni di vita più dignitose nel quartiere appena al di là dell’East River. Le persecuzioni che precedono la Seconda Guerra Mondiale spingono molti hassidici ad abbandonare l’Europa per gli Stati Uniti e Brooklyn diventa il punto di approdo. Ma sarà con la fine della guerra che i sopravvissuti dell’Olocausto arriveranno in massa a New York. Brooklyn, nei quartieri di Williamsburg, Crown Heights e Borough Park, ospita la più numerosa comunità di ebrei hassidici fuori dallo Stato di Israele.
In questa striscia di isolati dove i due quartieri si confondono, afroamericani, latinoamericani e hassidici convivono in una sorta di indifferenza rotta solo dai rapporti di lavoro e commerciali. Ci sono anche tensioni, come quelle relative all’assegnazione delle case costruite con i sussidi della città per le fasce di popolazione a basso reddito. E ci sono tensioni culturali, che raramente sfociano pure in episodi di violenza a sfondo dichiaratamente razziale. Ma in generale ognuno fa la propria vita incrociando quella degli altri. Questa concreta tolleranza o semplice diversità urbana, che è il vero tratto tipico di tutta New York, forse per gli idealisti alla “ama il prossimo tuo” non è abbastanza. Però è quella che ha consentito alla comunità degli hassidici di radicarsi e svilupparsi. La libertà religiosa è davvero un pilastro della cultura americana, e lo è anche l’esposizione dei segni della propria fede, qualunque essa sia. Vale per gli ebrei ortodossi e per gli osservanti delle altre religioni. A dispetto di quella che, per esempio, possa essere l’attuale percezione europea di fronte alle dichiarazioni razziste di Donald Trump sui musulmani, con il suo seguito elettorale nelle primarie repubblicane; o di fronte agli episodi terroristici che coinvolgono fondamentalisti come la coppia di San Bernardino, i musulmani in America trovano maggior libertà d’espressione della loro fede che non in Europa. Se a New York quasi nessuno farà caso a donne che girano con il volto coperto, e magari invece nella Bible Belt del sud questa libertà sarà messa a dura prova da fanatici intolleranti, basterà comunque ascoltare i rappresentanti delle diverse comunità islamiche per capire che sono consapevoli del rapporto profondo che li lega a questo Paese: colgono ogni occasione possibile per ricordare quanti musulmani prestino servizio nelle forze militari e quanti siano morti in missione sotto la bandiera americana. L’Europa, che guarda ovviamente inorridita le cronache dall’America di queste ultime settimane, non dovrebbe però sottovalutare la trave che ha nel proprio occhio.
A proposito di sguardi, la Williamsburg degli hassidici non lascerà nei vostri occhi immagini eclatanti. I negozi non sembrano particolarmente attraenti. L’architettura dei palazzi è spesso anonima, ricordando molto di più quella di una qualunque città del nord italiano. Forse voi non ci farete caso ma per chi vive a New York quei palazzi hanno qualcosa di raro: i balconi. Spesso sono molto più larghi di quelli cui siamo abituati noi in Italia e sono sostenuti da lunghe putrelle in ferro. Arrivato a Brooklyn, li avevo notati le prime volte andando a spasso per Borough Park e la prima associazione di idee mi aveva portato ai bambini. Le famiglie degli ebrei sono molto numerose, i ragazzi si sposano giovani e hanno parecchi figli. Osservando i bambini giocare sui balconi, e pensando alle dimensioni degli appartamenti, avevo immaginato che questi balconi evidentemente posticci fossero una soluzione per consentire ai bambini d’aver maggiore spazio. Solo venendo a Williamsburg, invece, ho capito la vera funzione dei balconi. Gli hassidici si considerano i portatori dell’idea autentica di religione ebraica. “Hasidim” vuol dire “il pio”. La modernità e la vita di città non aiutano sempre a rispettare i precetti religiosi. Tra questi c’è anche la predisposizione di un riparo, una tenda, per la festività di “Sukkot”, dove le famiglie consumano i pasti e in teoria dovrebbero pure dormire. I balconi a questo servono, a creare una “sukkah“.
A meno che noi ci andiate durante shabbat, nei vostri occhi rimarranno molto di più le persone, perché arrivando dall’Europa non c’è l’abitudine a vedere l’abbigliamento tipico degli uomini hassidici. Ma saranno soprattutto, e tante, le donne che vedrete per strade, spesso con tutti i bambini al seguito, perché compito principale degli uomini è quello di studiare la Torah. Nella comunità hassidica la donna ha una funzione fondamentale, oltre quella di far crescere i figli e così i nuovi credenti (perché si è ebrei solo se la mamma è ebrea). La donna è quella che tiene i rapporti con il mondo dei non ebrei, dei “gentili”. Questo avviene almeno a livello teorico e soprattutto per le questioni che interessano la famiglia nelle sue relazioni quotidiane con il resto della città. In teoria, perché nella pratica gli uomini sono ben presenti quando si tratta di rapportarsi con le istituzioni, da quelle politiche a quelle di polizia, così come negli affari.
C’È UN TEMPO PER OGNI COSA SOTTO IL CIELO. ADESSO È PROPRIO TEMPO DI CHIUDERE
Mi raccomando, qui vale lo stesso suggerimento già dato per Bedford-Stuyvesant: queste non sono zone turistiche e non vedrete quasi nessuno con macchine fotografiche al collo, a meno che non vi stiate imbattendo in qualcuno che lo faccia per lavoro. Non vuol dire che non possiate fotografare ma le persone non gradiranno i vostri sguardi morbosi, quasi fossero diretti ad un animale al circo. Il rispetto è sempre dovuto e non vi impedirà comunque di fare qualche scatto.
La nostra lunga camminata sta per arrivare al termine. Torneremo in zona, ma adesso è il momento di mangiare qualcosa.
L’autore della vostra guida tiene sempre gli occhi aperti quando è in giro per la città. Decine e decine di riviste e siti web offrono spunti e consigli d’ogni tipo per mangiare a New York, ma ci sarà sempre qualcosa che passerà inosservato ai professionisti. Un bel giorno, camminando lungo Bedford Avenue, giusto dopo essere passato sopra la Brooklyn-Queens Expressway, ho notato una piccola insegna su un locale dall’apparenza dimessa. “Restaurant” e nulla più. Su uno spicchio di isolato tra Keap Street e Williamsburg Street West sorgeva questo fabbricato in legno con quattro finestre protette da grate in ferro. La lettera “A” blu del dipartimento d’igiene non lasciava dubbi, era proprio un ristorante. Nonostante l’autore della vostra guida sia noto per la sua discreta faccia tosta, il via vai di soli uomini hassidici aveva creato davvero una certa soggezione. Insomma, non mi era sembrato il caso di entrare. Mi ero sentito uno straniero.
Sono tornato a South Williamsburg e mettendo da parte ogni remora ho fatto la cosa più ovvia di tutte: sono entrato in quel ristorante, con tanta fame. Ho fatto bene e sono stato contento. L’ambiente interno, con i suoi semplici tavoli in legno, ricorda una trattoria di Paese. E anche senza pensare alla storia di Williamsburg e delle origini europee dei suoi abitanti ebrei, a vedere quel fabbricato avevo immaginato le campagne viste in Ungheria. Klein’s il nome di questo locale (595 Bedford Avenue, all’angolo con Keap Street), che più che un vero e proprio ristorante, almeno come lo intendiamo noi, è un tipico “deli” ebraico. Al bancone sarà possibile trovare pietanze calde e fredde. Se non avete ancora mangiato dei bagel, questo potrebbe essere il posto giusto. Pare che anche le falafel siano una specialità della casa. Ma io sono stato attratto dal salmone e da un pure cremoso, con tanto di burro.
Non credo di sbagliare a dire che fossi l’unico “gentile” presente nel locale, ma non mi sono sentito a disagio come credevo inizialmente. Ho dovuto, certo, fermare un po’ di curiosità morbosa nell’osservare gli avventori. Dopo qualche minuto è entrata una coppia di ragazze che è andata a sedersi nel punto estremo della stanza, lontane dagli uomini. A fianco del mio tavolo un uomo pregava con un rituale fatto di inchini verso il suo tavolo. Ho continuato a mangiare e a leggere il mio cellulare, così come facevano gli altri uomini presenti e come se per me fosse assolutamente scontato che qualcuno pregasse con tanto fervore al ristorante. Vi consiglio una sosta qui, non la dimenticherete. Cercate solo di non presentarvi in quindici, come foste un gruppo vacanza. I solitari mi ringrazieranno.
Per smaltire il vostro pranzo, proseguite la passeggiata su Bedford Avenue, in direzione del Ponte di Williamsburg. Quando arriverete all’angolo con Broadway (quella qui Brooklyn) starete per entrare in un altro Mondo. Dalle barbe degli hassidici a quelle degli hipster. Per i fanatici della tendenza-ad-ogni-costo, e qui a New York ne abbiamo a mucchiate, Williamsburg è già morta. Ora tutto ruota attorno a Bushwick e io so già che vi ci devo portare. Ma voi, se avete ancora forza, fatevi una passeggiata qui per i fatti vostri. So per certo che tutte le Lonely Planet immaginabili parlano ancora di Williamsburg come il posto da vedere quando si viene a Brooklyn.
Se non avete avuto cuore per entrare da Klein’s, e però avete la pancia che brontola, vi consiglio un posto piccolo, che io amo assai: Pies ‘n’ Thighs, cucina dal sud degli Stati Uniti, quello che si chiama comfort food e lo è per davvero. Passate sotto il ponte, girate alla seconda a sinistra: S 4th Street all’angolo con Driggs Avenue.
E quando ti trovi a 7 chilometri da Williamsburg e non puoi muoverti da casa? Attraverso “Caviar”, un servizio di consegne a domicilio per ristoranti, Pies ‘n’ Thighs arriva davanti alla tua porta.
Welcome to Brooklyn.