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JFK – Porta Susa, andata e ritorno

Una sorta di diario di viaggio tra New York e Torino. Tramonti, serie numeriche, ore di sonno mancate, pizza con le olive, buio e luce. Tra le righe, anche qualche indizio per capire due città uniche.


Questa volta la colonna sonora è legata a quello che leggerete qui di seguito. Memorie del passato e spunti per memorie future. Zero barriere di genere. E ancora: un paio di canzoni su Torino, un paio su New York e canzoni per volare.

1) Non è che ti puoi mettere ad argomentare con madre natura. Quella palla rosso fuoco, ma grande, ma proprio tonda tonda tonda. Vabbè, nulla da dire. E il cielo azzurro, non una nuvola a pagare, che diventa più scuro, per quella stessa palla che tramonta. Beh, niente da obiettare. Bello, è bello. Ma anche noi esseri umani, sempre a martellarci i coglioni, ad ammazzarci di sensi di colpa pure con mamma natura come se non bastasse “mammà”. Beh, anche noi siamo mica malaccio. Quelle scie bianche, nello stesso cielo blu scuro, con la palla di fuoco all’orizzonte. Quelle scie che sarebbero notevoli anche se fossero chimiche, e diciamocelo! Beh, se non fosse per gli aeroplani, col cavolo che sarebbero lì a pennellare ‘sta tavola blu.

2) Dal treno che mi porta al Terminal 4 ne vedo due, di scie. E il mio treno automatico non fermerà al Terminal 3, perché al JFK di New York non esiste. Qui abbiamo un Terminal 8, ma senza il Terminal 6. Gli altri li abbiamo tutti (avevo scritto “li altri”, son messo bene pure io). Sembra complicato, ma non lo è. Siete voi che v’ostinate a contare come i bimbi a scuola. Invece, ripetiamo insieme: 1, 2, 4, 5, 7, 8. Ecco, bravi.

JKF parking
9 novembre 2021, New York, il cielo brucia sopra uno dei parcheggi dell’aeroporto JFK

3) Non sono arrivato troppo presto all’aeroporto. Così, nessuna tappa al Terminal 5, dove c’è il TWA Hotel. Il Covid ha modificato le abitudini, non sai bene se abbia allungato i tempi. Ma ci stiamo adattando niente male. Bravi tutti, e si capiva già dalle scie che abbiamo del talento creativo da vendere.

4) A New York, un po’ di creatività non guasta mai. Ma certe cose, proprio, son logiche. Perché mai dovrei sedermi ad aspettare al gate B28 quando il B25 è vuoto? E allora bi-venticinque, colpito e affondato. Che poi, quando parliamo d’aerei, magari la battaglia navale porta rogne. E poi non è solo che in tempo di Covid, anche se vaccinati, testati e mascherati, vogliamo stare distante dagli altri. È solo che c’è tanto spazio vuoto. Riempiamolo. In metro, c’era una discreta folla, quasi come ai bei tempi. Perché la linea A che va a Rockaway Beach attraversa quartieri popolari di Brooklyn e Queens, dove abita gente che non può lavorare da casa. C’era pure qualcuno senza maschera, ma a nessuno di noi è venuto in mente di rompere i coglioni. Il mio naso è a mezzo metro da due donne senza maschera, e non posso allontanarmi, ché la carrozza è piena, ed è già un miracolo che ho trovato dove aggrapparmi, con lo zaino tra le gambe. Al gate B28 possono anche fare festa grande, per quel che mi riguarda.

9 novembre 2021, New York, aeroporto JFK, un gate come un altro al Terminal 4

5) Al gate, prima dell’imbarco, ci prendono la temperatura. Che non è teatro, no, no, no no no, nooooo, no, no, davvero. È sempre bello sapere che la tua compagnia aerea si prende cura della tua salute. Hai due linee di febbre, oh tesoro, meglio che torni a casa e ti metti sotto le coperte. Quest’anno, con l’influenza, sarà impossibile viaggiare, ti beccheranno al volo. Dopo la temperatura è tempo di una bella fotografia, ma non di gruppo. Ognuno da se, di fronte ad un macchinario che non so se solo Delta o anche altre compagnie aeree usino. A giugno, con Alitalia, niente scatto. Faccio comunque notare all’impiegata che quella foto è orribile e che, no, quello non posso essere io.

6) Ho fame, voglio mangiare presto e poi addormentarmi. Il capitano ci ha già detto due volte che il volo durerà 7 ore e 22 minuti. Ho sistemato per bene il mio bagaglio a mano nella cappelliera. In genere, non sbircio mai sugli schermi altrui, è proprio una cosa che mi da fastidio. Mi faccio gli affari miei e gradisco che gli altri seguano la stessa banale regola di buona educazione. Ma mentre ero in piedi, l’occhio m’è caduto sul telefono dell’uomo che siede nel posto di fronte al mio. Una carrellata di giovani aitanti, tutti rigorosamente senza camicia.

7) Quando servono la cena? È possibile prima di decollare? Ché davvero ho un certo appetito. Vorrei andare a letto presto, dormire, riposarmi. Lo dico sempre, e poi finisce invece che guardo qualche film stupido. Stasera non sarà diverso. Sarò a Milano in un lampo. Mi addormenterò di sicuro un’ora prima d’arrivare a Malpensa, quando ci serviranno la colazione. Buono il panino della colazione, insipido il pollo della cena. Alla fine ho visto “Anchorman”. Non so se sia mai uscito in Italia, ma Will Farrell mi fa ridere tantissimo. Ero tentato dall’idea di rivedere “The Big Sick”, una bellissima commedia che gira attorno a malattia, amore e pregiudizi razziali. Prima di colazione ho messo invece su “Begin Again”. L’inizio del film, con Mark Ruffalo che deve ascoltare musica di merda mentre guida per l’East Village di Manhattan, è semplicemente esilarante. Non so perché, ma posso rivederlo all’infinito.

10 novembre 2021, l’aeroporto di Malpensa dall’autobus per Torino

8) Atterriamo puntualissimi. Lo so, anche se non guardo l’orologio. L’arrivo era previsto per le 9.30. Controllo elettronico del passaporto, foto d’ordinanza con mascherina abbassata e orecchie a sventola. Bagno, biglietto per Torino. Alla fine ho deciso, prendo l’autobus. Alle 10.06 partiamo, con un minuto di ritardo. L’autista è cordiale con tutti i passeggeri. E ci tiene informati. La moglie (o forse l’amante, la sorella, la mamma o pure la zia), in viva voce, gli fa il culo per la tortina. Siamo a Vanzaghello e il parabrezza dell’autobus cerca di sfiorare il portellone dell’autotreno che ci precede. Gli autisti spericolati dei Chinatown bus che attraversano la costa est americana da Boston a Washington, al confronto, sono educande. A proposito di musica di merda: l’autista, saltellando tra le stazioni radiofoniche, preferisce non ascoltare i Simple Minds e puntare invece tutte le sue carte su un tizio che raglia d’avere il cuore a mille. “Don’t you forget about me”. Cerco le cuffie.

9) La sfinge di Corso Giulio dice che siamo a Torino. Una volta erano solo nel chiuso delle stanze del Museo Egizio. Adesso, sono usate come segnalibro agli incroci. Un po’ come se il Metropolitan mettesse in Union Square delle statue assire grandi come i pupazzi del carnevale di Viareggio. Meno male che ci sono un po’ di rotonde, così l’autobus può inclinarsi a quarantacinque gradi. Chissà se vicino Corso Palermo riusciamo anche a uccidere quella signora che attraversa lontana dalle strisce. Viaggiamo così veloci, sulla corsia preferenziale centrale, che le insegne dei negozi sono invisibili, quasi delle scie pure loro. Sul controviale di Corso Vigevano c’è un’auto parcheggiata a cazzo proprio sull’angolo con Corso Giulio. L’autobus rimane incastrato per un po’, meno male.

Torino, Porta Susa
10 novembre 2021, la Stazione di Torino Porta Susa è pressoché deserta come sempre. Ma dice che la città è in fermento per le ATP Finals, il torneo che chiude la stagione del tennis con gli otto migliori giocatori al mondo [quando una didascalia contiene tutto quello che vuole il Dio dell’Indicizzazione].

10) Finalmente a Porta Susa. Il telefono fatica a collegarsi ad internet, non riesco a caricare l’applicazione per comprare un biglietto digitale del tram. Cammino lungo il tunnel ultramoderno e luminoso della stazione dei treni, ma non trovo una macchinetta per comprare un biglietto di carta. Torno indietro e scendo nella stazione della metropolitana. La macchinetta non emette segni di vita quando inserisco la carta di credito. Torno in superficie. Spengo il telefono. Riaccendo il telefono. Internet adesso va che è una bellezza. Quella del mio operatore telefonico, ché per quella cittadina dovrei registrarmi e non c’ho testa. Infilo il numero della carta di credito e compro due biglietti con l’applicazione di GTT, la locale azienda dei trasporti. Arriva il tram numero 10. Mi sembra quasi di tornare da scuola. Anche l’ora era più o meno quella.

Torino
Lo sapeva pure Antonello Venditti: “Torino, ma chi l’ha detto che non sei bella?”

11) Sto già pensando che quando torno a New York devo fare la revisione della macchina. Anche il secondo giorno a Torino è tutto regalato al meccanico, e alla revisione. Perché dentro quei 9000 chilometri di distanza c’è inflazione di similitudini. Però una cosa è vera. Qualcuno di voi ha presente la cosiddetta città dei quindici minuti? Cioè quel modello di organizzazione cittadina cui aspirano tanti urbanisti, dove in quindici minuti a piedi puoi raggiungere tutto quello che ti serve? Ebbene. Se Torino è la città dell’auto, e viste le sue dimensioni non proprio mastodontiche, allora è anche la città dei trenta minuti in macchina. Con mezz’ora d’auto puoi essere in media dappertutto.

Torino, Piazza d’Armi
A Torino, anche le biciclette sanno che questa è la città dell’auto.

12) Ecco, a New York, in effetti, è un filino diverso. Mezz’ora non basta per uscire da Brooklyn, nemmeno se la fai tutta in autostrada. Che poi, l’autostrada, la fai spesso a passo d’uomo. A Torino si lamentano di sfilare a 20 chilometri all’ora nei controviali. Noi, se superiamo i 40 in un viale a due corsie per senso di marcia, riceviamo fotografie su fotografie, e dobbiamo pure pagarle. A Torino, quando la notte si confonde col primo mattino, la città si accorcia ancora di più. Puoi sfrecciare senza che ci sia qualche poliziotto a discutere la tua passione per i motori roboanti di una Yaris. Dal finestrino, mentre prendi a tutta velocità la “Variante Ascari” di Corso Lione, puoi sbirciare un igloo di Mario Merz che al terzo piano del MoMA se lo sognano.

Torino, Monte dei Cappuccini
Torino di notte, vista dal Monte dei Cappuccini. Innamorarsi di Torino e a Torino? Fatto.

13) Se a Torino vuoi vedere la città dall’alto, di notte, non hai bisogno di pagare il prezzo di un ascensore che fa 100 piani in 50 secondi. Anche perché non lo troveresti. Ingrani invece la seconda del tuo bolide giapponese e sali al Monte dei Cappuccini. A New York, di notte, non serve fantasticare più di tanto. La città ti si para davanti, si stende ruffiana con tutte le sue luci. Adesso è così dappertutto, non solo più a Manhattan. Se guidi sull’autostrada che corre lungo l’East River, e butti l’occhio verso il Queens e Brooklyn, vedi che la linea all’orizzonte, nei quartieri davanti al fiume, s’è alzata d’almeno cento metri. A Torino è un po’ diverso. Dai Cappuccini vedi le luci del centro e poco più. A meno che tu non salga sulle colline più alte, come a Superga, è la fantasia che aiuta a immaginare dove arriva la città.

21 ottobre 2021, una Manhattan sfocata vista da un tetto a Brooklyn

14) Non è cosa frequente, soprattutto a tarda sera, ma al Monte dei Cappuccini puoi andarci anche se non ti porti dietro qualcuno da baciare. Seguo l’eccezione pure io. Non ho nessuno da baciare, e ci vado in solitaria. Voglio solo perdermi per un po’ a guardare quella che è stata casa mia fino a nove anni fa. Una sagoma scura si fa notare. Avvolta nel buio, pure la Mole è timida in questa città dove la riservatezza è la prima regola di sopravvivenza. Ma non ha bisogno di luci per svettare e farsi amare per sempre, la Mole. Anche lei, in una notte d’autunno, è proprio una donna di questa città, nonostante le sue sembianze vistose.

15) Perché le donne, a Torino, hanno fama d’essere poco eccentriche. Vogliono passare quasi inosservate. La loro riservatezza si esprime nell’eleganza sobria, mai sopra le righe. Mentre finisco il mio toast, e aspetto che arrivi il caffè, osservo una donna che sta pranzando con un cappuccino e una brioche. Ride, e così pure quei suoi occhi azzurri, che risalterebbero anche se indossasse una mascherina dello stesso colore. Sono certo che la stia notando anche l’uomo che siede di fronte a lei. Mi gusto il caffè e finisco il bicchiere d’acqua gasata. Sono d’ottimo umore, si Ottimo. Chissà se si vede che anche i miei occhi sorridono. Però devo sbrigarmi. Metto in bocca una gomma da masticare, quelle “Brooklyn” che a Brooklyn non esistono, e corro via.

Torino, Corso Duca degli Abruzzi
Le donne di Torino ti si parano davanti come fantasmi dal passato, ma hanno sempre lo stesso fascino.

16) Devo sempre correre, quando vengo a Torino. Una commissione, due commissioni, tre commissioni, quattro commissioni, cinque commissioni… Un appuntamento, due appuntamenti, tre appuntamenti… Chi vedere, chi no. Momenti che non torneranno più, se non nella mia memoria. Devo fare scelte, e non ho voglia di spiegarle nemmeno a me stesso. Figurati a chi mi giudica una specie di traditore della parola data. Ho smesso di contare. Soprattutto le volte che ho dato buca ad amici che mi vogliono bene, e continuano a non perdere la fiducia di riuscire a vedermi almeno per un caffè rubato. Qualcuno ha maggior ragione d’incazzarsi, soprattutto se per farci due risate insieme dobbiamo approfittare d’un rosario nel tardo pomeriggio. Inopportuno forse, ma non manchiamo di rispetto. Ci adattiamo e basta. L’ultima fila è sempre la migliore per non farsi beccare da un prete mascherato che invita ad unirsi nella preghiera con voce incessante.

17) Il mio fisico si adatta molto meno, invece. I giorni passano e ho ancora lo sfasamento orario provocato dal volo. È come se non avessi mai lasciato New York. Cenare alle dieci di sera è il meno che possa fare, anche se potrei evitare di mangiare nuovamente una pizza con le olive, non avendo digerito quella del pranzo. Chissà, magari l’aggiunta delle acciughe aiuta. Quando rientro a casa non riesco mai a prendere sonno prima delle due di notte. Faccio la barba nel primo pomeriggio. Sento una voce che arriva dalla strada, mi fermo per guardarmi nello specchio. “Clementini belli e saporiti. Senza semi. Forza!”. La voce continua, a tutto volume. “Pomodori, belli datterini, pomodorini! Broccoletti”. Continuo a radermi. “Volete l’uva? C’abbiamo l’uva. Patate, patate”.

Perché a Torino, l’eleganza, è pure al cesso

18) Niente giri per l’Italia, a questo giro. Rischio un incidente diplomatico-familiare. Ma l’Italia continua a girare, e torna sempre allo stesso punto. È come se fosse ancora estate, e l’Italia del calcio è sempre lì a giocare con la Svizzera. Forse è la stessa partita. E ogni volta che c’è di mezzo la Svizzera, io arrivo in ritardo. Perché mi manca il dono dell’ubiquità, ma sono abbastanza bravo a fare promesse che poi fatico a mantenere. Solo la città dei trenta minuti fa tenere insieme, nelle stesse 24 ore, una ragnatela di spostamenti dove puoi mettere in mezzo nosocomi, cimiteri, bar, grandi magazzini, tamponi e arrosticini.

19) Anche la musica in macchina non si è mossa dall’estate. La stessa compilation creata da me medesimo anni fa a Roma, e che parte sempre in treno per Londra con gli Electric Light Orchestra. Poi il “Chinese Take Away” di Mao, a imperitura memoria di un’epoca nella quale, coi miei cambiamenti sempre radicali, travolgevo tutto e tutti, “e sappiamo benissimo come andrà finire” (solo dopo 20 anni ho perso il vizio). Per concludere con una compilation della Ninja Tune, quando non potevi non ascoltare trip-hop.

Nei cuori degli amanti torinesi brucia la passione.

20) Ma nelle ultime ore della mia trasferta torinese s’è fatta strada una canzone italiana, che s’è insinuata nelle orecchie praticamente da subito. Sarà il ritornello, dove follia e vento vanno a unirsi con “un’ora nello spazio, un punto nel tempo”. O sarà colpa della melodia di quel pianoforte. Sta di fatto che la “Spazio Tempo” di Francesco Gabbani mi piace, anche se così tanto diversa dalla musica del cazzo che in genere ascolto io. Entrerà pure lei nella mia personalissima memoria. E definirà per sempre questo frammento del 2021. Quando la riascolterò tra qualche anno, so già che mi riporterà con un po’ di nostalgia a Torino, anche se è la colonna sonora di una serie televisiva ambientata a Roma. Le canzoni hanno questo potere. Per esempio, non posso più ascoltare “One more year” di Tame Impala senza pensare ad aprile 2020, il mese della pandemia a casa, quando anche a New York speravamo che prima o poi sarebbe passata la buriana. Gabbani non lo sa, ma la sua canzone ha pure un filo che la lega a New York. No, non Lennon e Yoko Ono che cita all’inizio. Ma “Houdini che toglie le catene al mondo”. Perché le spoglie di Houdini si trovano in un cimitero del Queens. E un giorno andrò a fargli visita, gliela devo.

Un po’ di musica e parole per il viaggio di ritorno a casa (con qualche idea per un progetto futuro… Rimanete sintonizzati sulla Guida Inutile New York).

21) C’è una cosa che non capisco. Ma davvero in Italia, per testare a fondo la presenza del Covid, vengono ancora usati quei tamponi che arrivano fino quasi all’osso lacrimale? Oh, dico, magari c’han ragione loro. E alla CDC americana, quella dell’osannato Dott. Fauci che piaceva tanto anche alla stampa italiana, sono matti a consigliare l’uso di tamponi che non vadano invece oltre un centimetro e mezzo nel naso. Ma inizio a capire perché certi genitori italiani non vogliano che i loro figli facciano il tampone. Non solo quello che ho fatto al Koelliker mi è costato più di una cena con vino e dessert, perché è stato impossibile prenotarne uno a prezzo calmierato. Ma quel bastoncino mi ha riportato con la macchina del tempo alla primavera del 2020, quando nessuno aveva la più pallida idea di quel che stesse facendo, e sfondavamo inutilmente le narici anche a Brooklyn. Vabbè.

Quando di notte sono a Torino, e mi manca New York, vado a Porta Palazzo.

22) Io e i biglietti per gli autobus non siamo più amici, adesso è chiaro. Provo a comprare il biglietto per andare a Malpensa. Vado sul sito di Arriva, cerco la data, l’orario, sono a pronto a pagare. Niente. Non accetta la mia carta di credito. La stessa che uso ovunque, anche quando viaggio all’estero, anche quando torno in Italia. Riprovo. Niente. Non serve incazzarsi, la prendo con filosofia, risparmio un bel vaffanculo per situazioni ancora più esaltanti. Chiedo al sito di Arriva di dirmi dove posso comprare fisicamente il mio biglietto. Mi mostra una mappa. Dice che nella mia zona ci sono due tabaccherie, a qualche centinaio di metri l’una dall’altra. Bene. Faccio che vado. La prima, in Corso Unione (Sovietica, ma a Torino non la pronuncia nessuno), dice che non fa i biglietti per Malpensa. Va bene. Vado nella seconda, in Corso Lepanto. La titolare mi dice che non fanno biglietti per Malpensa. Forse è arrivata l’occasione che aspettavo, quella per il vaffanculo. No, lei non ha colpe. Prova ad aiutarmi in qualche modo. Potrebbe stamparmi un biglietto per Rho. Chi sono, io, per mettermi a farle la lezioncina di geografia? Declino educatamente l’offerta. Poi mi dice che domattina riceverà dei biglietti per Malpensa. Non ho più nemmeno voglia di provare a capire. Ringrazio con voce squillante, garrula come quella che Spotify propina agli italiani (ma perché mai, poi?). Dico che torno certamente. Intanto, prendo le gomme da masticare. Le “Brooklyn” che non esistono a Brooklyn, che domande.

“Brooklyn”, ovvero la “gomma del Ponte”, che praticamente si può comprare solo in Italia. Ma, con un piccolo sforzo, si può trovare anche a New York. Da “D. Coluccio & Sons”, nel quartiere Bensonhurst di Brooklyn, dove ancora vivono tantissimi italiani.

23) Però il biglietto per Malpensa mi serve. Sono ottimista. Torino è una città pratica, solida, con lo sguardo proiettato al futuro della più sofisticata intelligenza artificiale. Torino lascerà nella polvere la grossolana demenza naturale. Figurati se non riesco a farlo, ‘sto cazzo di biglietto. E poi è la città dell’auto e io, l’auto, ce l’ho. Vado dritto a Porta Susa. Noi vecchi ricordiamo bene che i biglietti per l’aeroporto si sono sempre fatti, da che mondo è mondo, nei bar di Corso San Martino. E se abitavi a Mirafiori o in Corso Giulio (Cesare, che nessuno conosce, qui a Torino) era colpa tua. Il bar all’angolo, non li ha. La tabaccheria, nemmeno lei. Però mi offre la luce. Dice che posso andare direttamente poco più avanti, in corso Bolzano, dove c’è l’autostazione. Perché non ci ho pensato prima? Vado. E vengo ricompensato. Non solo faccio il biglietto, ma rischio quasi di perdere anche i miei occhiali nella scollatura dell’impiegata. Affetto nonchalance, perché ci passiamo almeno vent’anni di differenza. Mentre lei prende la mia carta di credito, io guardo fuori, come se me ne fregasse qualcosa.

Quando di notte sono a Torino, e mi manca Nietzsche, vado sotto casa sua.

24) Ho finalmente il mio biglietto per andare a Malpensa. E dopo qualche ora ho pure un orologio nuovo, che mi piace tantissimo. Mi sono fatto regalare dalla mia mamma un Casio digitale, col cinturino in metallo, come quelli che si usavano nei favolosi Anni Ottanta. A casa di mia madre, conservato come una reliquia, c’è ancora l’originale che utilizzavo quando ero un ragazzo fighissimo. Però non funziona più, lui. Io, invece, sto che è una bellezza.

25) Per una volta riesco ad addormentarmi un po’ meno tardi del solito. È solo l’una e mezza, e trenta minuti sono già un bel guadagno. Il guaio è che fra tre ore ho la sveglia. Lo so che forse per andare a Malpensa potrei prendere l’autobus delle otto, in fondo il mio volo è a mezzogiorno. Ma tra il rischio nebbia in autostrada, il check-in con la verifica del risultato del tampone, e poi il controllo dei passaporti, e poi sempre più viaggiatori che portano valigie a bordo, preferisco prenderla comoda. L’unico autobus disponibile è alle sei. I mezzi pubblici iniziano a muoversi dalle cinque e passano ogni 20 o 30 minuti. Poi dice che non servono i calcolatori.

Torino, Piazza XVIII Dicembre
19 novembre 2021, Torino, Piazza XVIII Dicembre alle cinque e mezza del mattino. Che poi è come dire Porta Susa prima dell’alba.

26) C’è la nebbia. Ma Largo Orbassano è ben visibile. Ho memoria di qualche decennio fa, una domenica. Camminando nello stesso luogo era quasi impossibile vedere i semafori. Alla fermata del 10, davanti alla Caserma Montegrappa non c’è anima viva, sono le cinque e dieci. Sul lato opposto uno sporadico autobus di quelli che vanno a Mirafiori. Semi vuoto. La città della fabbrica, che dettava il tempo e disegnava lo spazio nei quartieri, non esiste più, e non è una novità. Dagli alberi scendono le gocce della pioggia caduta la sera prima. Arriva il tram. Va piano, perché è di quelli pesantissimi, e per non arrivare alle fermate in anticipo sull’orario programmato. Alla fermata di via Vespucci rallenta e basta. Amerigo, noi si torna alla casa che prende il tuo nome.

27) Anche l’autista dell’autobus che mi riporta a Malpensa è gentile e disponibile come quello dell’andata. Se non sono ultra-cordiali, soprattutto con i clienti rimbambiti che si spalmano lungo tutte le coordinate demografiche, forse manco li assumono più. Musica in cuffia, perdo coscienza. Da viaggiatore previdente, quando arrivo in aeroporto vado subito in bagno. E poiché sono anche un viaggiatore con una certa esperienza, cerco il bagno più periferico possibile, quello ai margini del Terminal. In quell’area non passa nessuno, i banchi dei check-in sono deserti. Potrebbero uccidermi al cesso e non lo saprebbe nessuno. Occhiali da sole, cappello, mascherina, guanti e puoi fottere chiunque. Da viaggiatore previdente arrivo con troppo anticipo all’imbocco per il check-in dei voli diretti negli Stati Uniti e in Israele. E non ho nemmeno a portata di mano il passaporto o il telefono con il numero della prenotazione. L’addetto mi guarda ridendo. Rido pure io, e gli dico che forse dovrei prendermi un altro caffè. Torno dopo un’ora. Mi chiede se ho fatto finalmente colazione. Si, ora sto meglio.

Anche a Malpensa, alle otto del mattino, puoi trovare pace

28) Ma come facevo, una volta, a vedere film mattone? Non ci riesco più. Adesso ho solo voglia di commedie. E più sono stupide e demenziali, tanto meglio. “The Hangover” è un film divertente, che riguardo sempre con piacere. È di quelli che non ho mai visto in italiano. “Una notte da leoni” il titolo scelto per l’Italia. In cabina gli assistenti di volo invitano i passeggeri a tirare giù la tendina dei finestrini, per fare buio e consentire di dormire a chi ne avesse voglia. La mia quasi vicina, una simpatica signora italiana che mi chiede come ho fatto ad avere il caffè, decide che la notte non fa per lei. Io e gli altri attorno abbiamo una soglia della tolleranza alta, così non le diciamo nulla. Nemmeno la mia assistente di volo redarguisce la signora che ama la luce.

29) Invece, la stessa assistente mi ringrazia perché sapevo già cosa volevo mangiare per pranzo. Mi dice che anche solo dover ripetere una volta di meno il menu del giorno è un piccolo regalo. Sorrido, e sono contento d’avere la mia maschera. In un’altra era geologica avrei volentieri flirtato, tanto per il piacere di flirtare. Ma adesso, a parte il fatto che sono sposato, e pure un buon padre di famiglia, sono troppo vecchio e stanco per tenere gli occhi aperti. Il mio film lo vedo a spezzoni, e così pure il successivo “Wedding Crashers”, un altro che mi fa sempre ridere tanto. Cerco di leggere un libro la cui trama sono sicuro mi piacerà, anche se lo scrittore svizzero, fin dalle prime pagine, si lascia andare a troppi cliché su New York e l’America. Un po’ come se un americano, scrivendo di un scrittore romano a Roma, dipingesse il suo protagonista in un appartamento davanti a Trinità dei Monti, e tutto intento a mangiare saltimbocca e carbonara. Voglio solo riposarmi, e nella digestione di un vecchio la palpebra cade in fretta, a meno che non abbia la fortuna di pasteggiare in buona compagnia (fosse anche davanti ad un’indigeribile pizza con le olive). Quando atterriamo a JFK, saluto l’hostess e le auguro di trascorrere qualche ora piacevole qui in città. Ora che non c’è più l’oscurità della cabina, ma solo le nostre perenni mascherine, vedo finalmente i suoi occhi vivaci. Sono pronto a scommettere che qualcuno l’aspetta felice a casa.

30) Da viaggiatore previdente, questa volta rinsavito, ho già il passaporto in mano. L’ho preso dallo zaino poco prima di lasciare l’aereo. La ragazza seduta alla mia sinistra, vedendolo, mi ha detto che prima non aveva capito che io fossi italiano. In effetti, non avevamo parlato granché durante il volo, giusto qualche scambio. Mi aveva chiesto cosa fosse lo spuntino che ci avevano servito, una sorta di pizza arrotolata (buona). Quando viaggio da solo ho la tendenza a farmi gli affari miei. E apprezzo sempre quando gli altri mi lasciano in pace.

Sul treno che collega JFK alla metro. I miei occhi non sono stanchi. No, no. No, no, no.

31) Con il mio passaporto, e la carta verde degli immigrati con permesso di soggiorno permanente, mi dirigo verso la coda veloce riservata ai cittadini americani e ai fortunati come me. Ci prepariamo tutti quanti per la foto di rito, un paio di domande, di rito pure quelle, e le impronte digitali. Tutto molto veloce. Potrei risparmiare almeno venti minuti in più, se non fosse che davanti a me ci sono un paio di famiglie numerose. Una mi sembra latinoamericana, l’altra è sicuramente mediorientale. Hanno tanti bambini piccoli. Così, soprattutto per loro, le foto e le impronte diventano un gioco che richiede un po’ di pazienza. Sono fuori. E vado in bagno, ovvio.

32) Prendo l’Air Train che da JFK mi porta alla stazione della linea A di Howard Beach. Aspetto la metro allontanandomi dai turisti che si concentrano tutti nel bel mezzo della banchina. Come me, una coppia e una signora che lavora per l’aeroporto. L’aria è tersa, qui a New York. Significa semplicemente che inizia a fare freddo. Le quattro e venti del pomeriggio sono passate da poco. C’è ancora un po’ di luce. Arriva la metro. Riesco a sedermi. Seduto di fronte a me c’è un tizio. Mi guarda fisso per un po’. Anch’io lo guardo per un po’. Poi, però, io mi rompo i coglioni, e giro lo sguardo da un’altra parte. Ci sono tre poliziotti. Parlottano e ridono. Non ci sono turisti, qui attorno. Ma si capisce dalle nostre facce che arriviamo lo stesso da mezzo mondo pure noi. Dai finestrini vedo l’ippodromo di Aqueduct. Il cielo diventa più scuro. Mi sento di nuovo a casa. Non mi serve per sognare, ma posso finalmente chiudere gli occhi. E dormire.

La vostra “Guida Inutile New York“ mantiene la promessa. Di ritorno dal tampone all’Ospedalino Koelliker, si ferma davanti allo Stadio Grande Torino (FVCG) per un autoscatto con le adorate colonne di Tony Cragg.

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