Luoghi

Gocce di mare

Quando vorresti evitare l’acqua e quando non ne puoi fare a meno. Note sconclusionate di due giorni a New York vagheggiando il mare, dopo quattro giorni in New England sotto la pioggia. Schivando pallottole su Broadway, nell’ennesima calda estate della migliore delle città possibili...


[Premessa]

Questa sorta di sgangherato diario postumo è stato scritto prima che l’Uragano Ida, dopo aver devastato la Louisiana, arrivasse la sera del primo Settembre anche nel nordest degli Stati Uniti, e scaricasse su New York in poche ore la stessa quantità di pioggia che la città riceve in un mese. Gli allagamenti hanno interessato soprattutto il Bronx e Queens, devastando case e negozi. I morti sono stati almeno 17, la maggior parte dei quali in case abusive ricavate negli scantinati. A New York si calcola che esistano almeno 50.000 appartamenti di questo tipo. Gli uragani e le tempeste tropicali sono parte integrante del clima in America, non sono una novità nemmeno nel nordest del Paese. Ma New York è una città vecchia, con un sistema fognario e una metropolitana inadeguati a reggere eventi meteorologici estremi. Come già successo con la super tempesta Sandy, a fine ottobre 2012, la città deve continuare a prepararsi per il futuro e investire nel rinnovo delle infrastrutture primarie).


LUNEDÌ 23 AGOSTO 2021

Ore 6.30pm (quaggiù non si usano le ventiquattr’ore, se non quelle per seppellirsi tra le carte in un ufficio a Wall Street)

Per accompagnarvi nella lettura di questa sorta di diario, tra gocce varie.

Ci sono quei pregiudizi durissimi a morire, perché un po’ di verità se la portano appresso pure loro. Tipo quello che tutti i ragazzi afroamericani giochino a pallacanestro e mangino pollo fritto. O il pregiudizio che tutti noi italiani mangiamo cannoli e giochiamo a calcio. Io mangio cannoli, ma faccio praticamente schifo con qualunque palla, salvo le mie. Quaggiù in America non c’è campetto da basket affollato di ragazzini che non sognino un giorno di poter emulare Kevin Durant (si, si, dicono proprio emulare); e che poi non si mettano in fila da Chick-fil-A per un panino con cotoletta di pollo impanato alla maniera del sud. E allora, vagando un lunedì pomeriggio di fine agosto per Brooklyn, ti si apre il cuore a vedere un ragazzino afroamericano che non sogna il Dream Team olimpico di pallacanestro ma cammina vestito invece di tutto punto con la sua divisa da judo. Non solo. Sta mangiando dumpling e altre cose che non riconosco. Con le bacchette. Senza fermarsi, imperterrito per la sua strada. Un vero newyorchese, secondo l’unico pregiudizio che ci mette tutti d’accordo qui in città.

Stasera niente cannoli. Sto rientrando a casa per cucinare le mie famose polpette al sugo di pomodoro, che mangeremo rigorosamente con gli spaghetti. Però parlavo di cannoli a pranzo con mio figlio, mentre divoravamo la pizza avanzata la sera prima, ché la domenica preparo sempre come minimo quattro teglie. Da mesi ho intrapreso un lungo percorso introspettivo che mi condurrà un giorno a diventare una vera Nonna Italoamericana. I cannoli in questione erano quelli di Peter Clemenza. Ho deciso che a nove anni mio figlio debba possedere almeno una conoscenza basilare delle scene principali del Padrino. Abbiamo parlato di mafia. E parliamo dei Talebani. Ha chiesto chi dei due fosse il peggiore. Democristianamente, pur non decretando la parità, ho optato per una generica malvagità di entrambi. Con l’unica differenza che i Talebani non parlano la stessa lingua del suo papà, e che già le donne come sua nonna, da giovani, erano riuscite a liberarsi dall’oppressione maschilista degli integralisti di Trinacria. 

Nella “staycation” newyorchese del 2021, per la vostra Guida Inutile, c’è stata anche una tappa per i cannoli di “Ferrara” su Mulberry Street, a Little Italy.

Da giorni mio figlio chiede se a New York ci sarà un’altro Undici Settembre, adesso che i Talebani sono di nuovo al potere in Afghanistan. Si, anche un bambino di nove anni può essere più sveglio di quell’imitatore del cadavere balbettante che è il Presidente Joe Biden. Ma prima di dissetare di Al Qaeda, Isis e integralisti vari, ci siamo concentrati su pistole e cannoli. Se tua moglie ti chiede di passare in pasticceria e tu, nel frattempo, devi pure eliminare il tuo autista traditore, dopo aver pisciato a bordo strada in qualche sperduto angolo del New Jersey dirai al tuo killer: “leave the gun, take the cannoli”. Perché altrimenti, chi la sente poi tua moglie? Per vedere tutto il Padrino, passerà ancora qualche anno. Ma con i Blues Brothers siamo già alle seconde visioni. La scena della “pinguina” contiene la stessa dozzina di parolacce che può ascoltare al campetto di pallacanestro, ma ripetute con una frequenza minore. C’è un modo migliore per creare ricordi indelebili nella mente di un bambino che puoi plagiare come meglio credi? Almeno, io, provo a non rompergli i coglioni con tutta la fuffa politica del genitore globale liberal-progressista, o di quello seduto al lato opposto del tavolo, che vede ovunque attacchi esistenziali ai confini spinati della patria identità. I bambini che fanno il pappagallo dei loro genitori fanno una tenerezza infinita, nella loro patetica coglionaggine. E sono noiosi, ancora più noiosi dei loro ossessionati genitori. Chi vuole giocare col sapientone cagacazzo di turno? Che parla di apocalissi ambientali ma non sa mettere in fila i nomi di tre Pokemon o dei ricevitori dei New York Giants? Io ho un’unica speranza: che un giorno, a tempo debito, il mio figliolo possa imparare da solo quanto siano maledettamente soporiferi i socialisti internazionali e il loro contraltare, i nazional socialisti. Quando entrambi non diventano invece letali per davvero, al punto da creare terrore pur di veder trionfare le loro idee malate.

Un giorno di quelli belli, invece, comprerò dei cannoli, e io mio figlio ci rivedremo la scena brutale di Peter Clemenza, ma con un’esperienza sensoriale più completa. Profumi e sapori sono il vero cemento dei nostri ricordi, anche di quelli più vaghi, quelli che non riusciamo più nemmeno a collocare nel tempo. Mio papà sarà per sempre l’odore della polvere di lana che si accumulava nel magazzino dove lavorava, e poi nei suoi polmoni. Quando sento l’odore di una saldatura, penso al volo al mio padrino. Le melanzane fritte nella pasta al pomodoro, per me, sono come l’aria che respiro, anche se nessuno dei miei amici piemontesi ha mai pasteggiato nella stessa troposfera. Con i luoghi funziona allo stesso modo. È sempre e solo una questione di tutti e cinque i sensi.

Ore 6.46pm (mi ricordo montagne verdi e “British are coming”)

Vermont, agosto 2021, il fiume Ottauquechee, dove anche la vostra Guida Inutile ha fatto il bagno.

Il Vermont, per esempio, nella mia mente rimarrà sempre e solo associato all’acqua. Tre giorni continui di pioggerella e cielo grigio nel bel mezzo di questo secondo mese d’agosto con il Covid (vaccino compreso). I residui di Fred, tempesta tropicale che ha pensato bene di posarsi sulle nostre teste nell’unica settimana estiva in cui abbiamo deciso di lasciarci New York alle spalle per qualche giorno. Fred è stato un grandissimo figlio di buona madre. Lo so, anche questo è un pregiudizio, di quelli sessisti. Non si spiega, altrimenti, perché il giorno della nostra partenza dal Vermont il cielo fosse azzurro. Lungo la strada per raggiungere Boston abbiamo approfittato della sua clemenza (sempre lì attorno si gira, con o senza cannoli). Ci siamo fermati lungo un fiume dal nome impronunciabile, chiamato Ottauquechee dai nativi americani. Si trova nella zona delle piccole gole di Quechee e di una diga che ti auguri sia in grado di reggere la massa d’acqua che si accumula nel suo bacino. Turisti e residenti del Vermont vanno a farsi il bagno nelle acque gelide di questo fiume, così come in centinaia di altri cosiddetti “swimming holes” sparsi per le foreste dello Stato che si chiama “montagna verde”. Il nome “Vert Mont”, poi imbastarditosi perdendo una “t” per colpa dei Perfidi Inglesi Imperialisti, fu dato dall’esploratore e colone francese Samuel de Champlain, che reclamò il territorio all’allora Nuova Francia. Champlain è anche il nome del lunghissimo lago che separa lo stato di New York dal Vermont, arrivando sino in Canada.

Comunque, ora che ci penso, non è vero che ricorderò il Vermont solo per la pioggia che neanche a Seattle. Le calorie che ho preso laggiù me le porterò appresso anche in autunno, tra fianchi e pancia. Solo in Vermont puoi trovare una gelateria che vende panini con pollo fritto farciti alla vietnamita (in America il bánh mì è popolarissimo). Poiché trattasi pur sempre di un territorio dove i cugini transalpini hanno lasciato una traccia, mentre sei in coda in quella stessa gelateria per la tua cena da asporto, ascolterai musica elettronica che arriva dritta dalla Francia. Anche in Vermont la colazione è il pasto principale della giornata, altrimenti gli inglesi non l’avrebbero chiamata “spezza-digiuno”. E allora, giù con burrito o breakfast sandwich da 2000 calorie l’uno, che ti mandano avanti sino a cena se non fai una mazza tutto il giorno. Il Vermont ha la stessa popolazione di Genova, ma con la superficie della Lombardia. Significa che anche le sue città principali sono piccole. Burlington, nel cui centro ti accomodi per decine di ristoranti e bistrò vari proprio come in una qualunque cittadina francese, ha un’università che probabilmente copre un’area più grande del resto della città. Montpelier, che ha una sola “L” e si pronuncia all’inglese, con l’accento che cade sulla prima “E”, è la più piccina tra le 50 capitali degli Stati che compongono la federazione americana. Ma ha un meraviglioso ristorante italiano, Sarducci. Classici della tradizione italoamericana preparati con tanto, tanto, tanto amore. Sconsigliato a tutti i nostri patetici connazionali con la puzza sotto il naso, quelli pronti a propinarci le loro fregnacce sulla cucina che sarebbe sempre contaminazione a meno che non vi siano italiani d’America di mezzo. Per loro la cucina italoamericana è aberrazione, mentre tutte le altre del Mondo sono il frutto dei confini che si dilatano, dell’amore universale, delle curiosità gastronomiche e via di questa lagna. Sarducci si trova lungo il fiume Winooski, vicino ad un ponte. Con un bel po’ di fantasia, ma propria tanta, tanta, tanta, puoi pensare d’essere sul Lungarno a Firenze. E noi l’abbiamo pensato senza aver bevuto alcolici. Il Vermont è anche la patria del gelato Ben & Jerry, il cui stabilimento si può visitare. Noi lo abbiamo saltato. E a me tutte le menate anti-Israele di Ben e di Jerry stanno indigeste. Ma voi siete liberi di boicottare chi vi pare, e mangiare il gelato che più vi aggrada. Se un giorno andrete in Vermont, sappiate che potrete visitare il cimitero di Ben & Jerry, dove vengono ricordati i gusti ritirati dal mercato o che non sono mai stati in grado di raggiungere la produzione di massa. Perché in Vermont sono in grado di vendervi la qualunque, e per questo li ammiro. Ah, gli americani della costa nord-orientale, da Washington a Boston, ci vengono soprattutto d’inverno, per sciare. E da quel poco che ho visto a Stowe, gli impianti sciistici sono notevoli. Ah, dimenticavo pure un’altra cosa. A meno che non siate di Pavia, apprezzerete i ponti coperti del Vermont, una memoria del passato che sopravvive. Sono in legno, non come quello sul Ticino. Ah, sicuramente anche il Vermont meriterebbe una Guida Inutile. Ma sono in fase caotica, senza un filo logico. Ah. Eh.

20 Agosto 2021, Boston, tramonto sull’Esplanades del Charles River.

Fred non è stato l’unico portatore d’acqua nella nostra settimana di fuga da New York. Arrivati in quel di Boston, ci si è messo pure l’Uragano Henri (“anrì”, alla francese), che risaliva velocemente l’Atlantico proprio mentre noi prendevamo possesso della nostra stanza d’albergo a Chelsea. Il sole di Boston era lì a ingannarci con le sue false promesse. Se non avessimo lasciato la città il giorno successivo, ci saremmo ritrovati bloccati in albergo per almeno 48 ore, perché Henri minacciava di spazzare violentemente con vento e pioggia una vastissima area del New England. Così abbiamo concentrato tutta la Boston possibile in poche ore. Cena in un ristorante che fa finta d’essere una birreria, fidandoci del fiuto del figliolo (ottima scelta, my man). Tramonto sull’Esplanades del Charles River. Pranzo del giorno successivo a North End, la locale Little Italy, con tanto di puntata a casa di Paul Revere. A Palermo avevano “mamma li Turchi!”, Paul Revere è invece passato alla storia da Bignami per essere stato il primo ad avvertire i coloni Americani, il 19 aprile 1775, che le truppe inglesi stavano per arrivare. La sua cavalcata per la contea del Middlesex, come quella di altre decine di messaggeri come lui, fu propizia. Gli Americani sconfissero gli Inglesi a Lexington e Concord, dando inizio alla Guerra di Indipendenza, che quaggiù si chiama più propriamente Guerra Rivoluzionaria Americana. Nessuna speranza di perdermi nella Boston di Frank Costello, il Jack Nicholson di “The Departed” (gran film con Leonardo di Caprio, Matt Demon e Mark Wahlberg, quest’ultimi due nati e cresciuti proprio in zona). Ma prima di buttarsi in autostrada, puntata ad Harvard.

Al diavolo quindi anche la due giorni programmata a Beantown, come Boston è conosciuta dalle sue parti. Sabato pomeriggio i 350 chilometri per rientrare da Boston a Brooklyn hanno richiesto sei ore abbondanti di viaggio, con andature da lumaca in Connecticut. Scegliere d’abitare in un’area metropolitana da oltre 20 milioni di abitanti non è mai un’idea brillante. Sono il doppio degli abitanti della Lombardia, sempre lei, ma su un territorio che è più piccolo di almeno un quinto. In un giorno qualunque, quando scorgi il piccolo cartello che segnala l’ingresso in città da nord, nel Bronx, sai che ti attende almeno un’ora di inferno autostradale prima d’arrivare già solo agli inizi di Brooklyn. Alla vigilia di un periodico diluvio universale, ti metti il cuore in pace. Una volta al caldo afoso delle mura di casa, fradicio come pochi per aver scaricato il bagagliaio in tredici secondi, ringrazi che la tua macchina non sia stata risucchiata all’ultimo miglio dall’acqua alta a Gowanus, la “Venezia” del borough più popoloso di New York.

21 Agosto 2021, la Boston dei tuoi sogni, quella che vale la vacanza: arresto nella Little Italy di North End (tutto vero).

Ore 11.50am (si, lo so, mezzogiorno viene prima delle sei del pomeriggio)

Leopardi iniziava a deprimersi il sabato sera, e poi con la sua frustrazione sbracava per tutta la domenica, solo perché c’aveva ‘sta fissa di quanto fosse illusorio il piacere per noi mortali. Ma, in fondo in fondo, lo sappiamo che il marchigiano non avesse proprio tutti i torti: prendi al volo quello che ti capita sotto mano, goditi quel momento effimero di felicità, ché domani potrebbe andarti decisamente peggio. E però abbi fiducia, piccola anima meschina, che prima o poi torna anche il sabato della festa. E se piove a dirotto pure la domenica, cioè il giorno precedente quello del tuo sabato nel villaggio allagato, perché c’è un uragano che volteggia pauroso sopra le teste a 200 chilometri da casa tua? Conoscere le imprecazioni più volgari in almeno un paio di lingue può aiutare. Ma con una discreta dose di cieco ottimismo leopardiano, quel sabato di gioia, magari, lo puoi incrociare già il lunedì successivo…

Dopo il pranzo educativo delle pistole e dei cannoli decido che devo andare a fare una lunga camminata ristoratrice. Già che l’unica settimana di follia vacanziera è andata a farsi benedire nel New England, diamo almeno un senso a queste ultime giornate di “staycation” a New York. “Staycation” è l’espressione molto figa abusata nel pianeta anglosassone per esprimere un concetto molto più semplice: cioè quello che non vai in vacanza e te ne stai invece a casina tua, sfruttando il tempo libero per goderti la città dove vivi. In pratica, fingi d’essere in vacanza nella tua città. Avendo io da otto anni e mezzo piantato radici a New York (che, come dice una cara amica mia, non è proprio Trofarello), ci sono di sicuro luoghi peggiori per trascorrere la villeggiatura in città. Mi torna in mente un articolo letto nei primi Anni Ottanta su un mensile inglese. “Le vacanze d’inferno”, era il titolo a effetto. Suggeriva di visitare luoghi come la Soweto dell’apartheid sudafricano o la Beirut distrutta dalla guerra civile. Chi vuole davvero venire in vacanza a New York d’estate? A parte i turisti europei, intendo. Che poi, adesso, nemmeno possono. Estate a New York significa afa a volte insopportabile. Stazioni della metropolitana dove forse puoi cuocere anche il pane. Calore che si alza dall’asfalto e, filtrando attraverso rifiuti e piscio vario, si propaga nell’aria come la vera essenza e quintessenza newyorchese, unendosi ai profumi del cibo venduto in strada e ai gas di scappamento di furgoni che probabilmente sarebbero illegali anche in qualche sperduto villaggio di quello che una volta potevamo chiamare Terzo Mondo senza rischiare l’infamia d’essere razzisti. Certo, il turista intelligente per davvero si può rifugiare in museo, con tanto d’aria condizionata. Ma New York è nelle sue strade sconnesse, dove guidiamo senza guardare in faccia nessuno. Nei suoi marciapiedi luridi, dove l’ultima delle cose che vogliamo fare è guardare in faccia qualcuno.

Ore 11.55am (ma perché mai un turista nel 2021 dovrebbe azzardarsi a visitare New York e, tanto meno, rischiare la pelle d’estate a Times Square? Avanti, un po’ di coraggio…)

13 Agosto 2021, Times Square non è deserta come lo scorso anno ma le folle del passato sono ancora solo un ricordo.

Purtroppo, la New York comunque magnetica e sgangherata del 2021 non è però paragonabile a quegli invidiati inferni terrestri della mia adolescenza. In un’estate newyorchese del Covid che ti potrà mai capitare se sei un banale turista nella Greatest City in the World? Boh, metti caso che ti trovi dalle parti di Times Square, il magnete turistico per eccellenza. Perché è sempre vero che noi newyorchesi abbiamo ben poche ragioni per andarci, ma un turista vuole giustamente perdersi tra le insegne luminose del crocevia più famoso in tutta la Via Lattea. Quel visitatore giornaliero, vai a sapere, può essere invece anche solo qualcuno che vive a Brooklyn, ha un lavoro modesto e vuole per una volta portare i bambini a vedere i grandi pupazzi di Minnie e l’Uomo Ragno, e poi comprare dei giocattoli. È lì che cammina felice e sereno con la sua famigliola e… bang! La figlia di 4 anni viene colpita per sbaglio da un proiettile sparato da un venditore abusivo di cd di musica rap. Questo aspirante commerciante, in realtà, non voleva colpire una bimba innocente ma farla pagare ad un’altro idiota come lui, il fratello, che tra l’altro gli assomiglia come pochi. Nella sparatoria vengono colpiti anche altri due passanti, ovviamente ignari del pericolo di passare davanti a questi petulanti personaggi che ogni newyorchese evita come la peste, consapevole che spesso i pregiudizi salvano la pelle. Perché il gansta di Times Square con lo sfizio per le ferite d’arma da fuoco non si perde d’animo, quando si mette in testa una cosa, anche se non sa certo come tenere una pistola in mano. La bambina ferita viene immediatamente presa in braccio da una poliziotta e portata di tutta corsa all’ambulanza che sosta ad appena un isolato dal luogo della sparatoria. La poliziotta si trovava lì nei paraggi, come tanti altri suoi colleghi odiati dai progressisti col culo al caldo, che vorrebbero togliere finanziamenti alla polizia, ché tanto loro a Times Square non ci mettono piede e vivono pure ben lontani da Brownsville, forse il quartiere più violento di tutta New York. La bambina si salverà, e lo stronzo con la pistola, 31enne, inquadrato dalle telecamere stradali e segnalato da numerosi testimoni anonimi, verrà beccato cinque giorni dopo, mentre tenta di fuggire in Florida con la fidanzata e con un taglio di capelli a zero per essere irriconoscibile. Qualche settimana dopo, il presunto destinatario di quei proiettili vaganti, e cioè suo fratello, verrà arrestato per aver cercato di derubare dei turisti, ancora una volta in Times Square. I coglioni sono sempre due, si sa. In una città di oltre otto milioni di persone, te lo puoi aspettare che i coglioni abbondino, e così pure che vi sia un rischio di prenderti un proiettile, anche se davvero molto minimo. Ma con un bel po’ di fortuna scontata potrai tranquillamente pernottare in città, uscire dal tuo albergo nel pomeriggio, a due passi letterali da Times Square e… bang! Eccheccazzo… di nuovo?? Sei solo un marine che arriva dalla grande provincia settentrionale dello Stato di New York, in città con la tua famiglia per un battesimo. Vieni raggiunto da un colpo di pistola, sparato dall’ennesimo coglione che vende… ops… cd abusivi di musica rap?! No, non è uno scherzo. 

Questa volta ha solo 16 anni, il nostro gangsta di turno. Ma anche in questa occasione il coglionazzo viene ripreso dalle telecamere sparse per tutto il quartiere. Il giorno prima aveva litigato con un tizio che ballava breakdance, e oggi si sono presi di nuovo a male parole. Che fanno, in questi casi, i gangsta in miniatura e i seguaci più ignoranti di quella sottocultura aberrante spacciata nei più mediocri testi hip-hop? Sparano. Per difendere un perverso senso dell’onore, o per non beccarsi un proiettile per primi, in quelle faide interminabili che non esisterebbero se ci fosse una criminalità organizzata coi controcazzi e non queste gang di peracottari armati fino ai capelli. Quaggiù, in questo Paese dove la libertà e l’intraprendenza dei singoli sono giustamente sacre, non esiste l’equivalente di una camorra o di una ‘ndrangheta tra nessuna delle minoranze demografiche e comunità varie infestate da criminali incuranti di colpire innocenti, la cui unica colpa è trovarsi sulla traiettoria di proiettili esplosi per vendette infinite. Se questi coglioni sub-umani si sentono impuniti e invincibili a Times Square, in un’area dove ci sono poliziotti dappertutto, anche quelli in tenuta anti-sommossa, e pure quelli delle squadre speciali anti-terrorismo, figurati nel resto della città! Ci sono quartieri del Bronx e di Brooklyn dove quasi ogni giorno c’è almeno una sparatoria o qualche violento regolamento di conti o una discussione animata tra giovani appartenenti a centinaia di piccole e piccolissime gang dedite allo spaccio di droga e altri crimini. Stesso discorso vale per East Harlem o le aree nord di Manhattan, nonostante le balle multicolorate spacciate nella Washington Heights propagandata da Lin Manuel Miranda. La polizia ci avverte che da mesi c’è la moda di portare le pistole nel marsupio, indossato a tracolla sul petto. Si, il marsupio di ogni turista che si rispetti. Ovviamente, quando ci prendiamo la briga di leggere e vedere quel che accade nella non troppo lontana Baltimore o, ancora peggio, nella South Side di Chicago, facciamo spallucce e ci godiamo la fortuna di quelle che, al confronto, qui a New York sono solo piccole scaramucce tra ragazzi che non sanno come gestire la sovrabbondanza di testosterone. Frequentissime d’estate, queste beghe giovanili, quando le scuole sono chiuse e il caldo spinge tutti all’aperto. Mediamente, una volta al giorno ci scappa il morto. Ma suvvia, so’ ragazzi, si sa…

Dalla vasta Collezione Primavera-Estate “Sparatorie a New York” 2021. Al centro del collage, pallottole su Broadway (letteralmente, se non fosse per una cinquantina di metri). Il tizio con la pistola ha appena 16 anni. New York è una città che non fa distinzioni di genere: sparano anche le donne (foto piccola in mezzo a sinistra e foto piccola in basso a destra). E si spara pure se ci sono bambini di mezzo, tentando d’evitarli (in basso a sinistra) o colpendoli involontariamente per un litigio durante un parcheggio (in alto a destra).

Per l’americano medio che ha la fortuna di vivere nella vastissima provincia della soporifera tranquillità benestante, dove si susseguono case unifamiliari, giardini tagliati di fresco e supermercati dove puoi comprare l’impensabile, New York è un po’ l’equivalente di Napoli per un italiano medio del settentrione. Magari una città interessante, con luoghi suggestivi che vorresti visitare. E con quella pizza che… vuoi mettere? Ma dove, alla fine della fiera, non vorresti mai vivere. Non so cosa dicano i miei amici napoletani, ma qui stiamo già belli pigiati gli uni sopra gli altri. Insomma, non ci lamentiamo se i biglietti più popolari per New York siano quelli andata e ritorno.

Il turista italiano che arriva quaggiù non percepisce quest’idea che gli americani riservano a New York, solo perché nelle grandi città d’Italia sono pochissimi quelli che lavorano dentro un grattacielo e nessuno coprirebbe i teatri con immense insegne luminose. Per loro New York è la modernità che luccica, perché non hanno la più pallida idea di quanto luccichi il resto dell’America. New York, per l’americano che arriva da città dove quasi ogni giorno saluta i vicini di casa e pure il postino, è invece soprattutto un ammasso di cemento sgraziato. È una metropoli disordinata, sporca e caotica, anche quando si rifà il trucco nei quartieri destinati ad accogliere milioni di turisti internazionali. Non ha la maestosa eleganza architettonica di Chicago. È quasi impossibile essere trascinati nel passato di New York, perché non esiste un centro storico che racchiuda le principali funzioni cittadine, nemmeno un abbozzo come quello che si percepisce nella Boston punteggiata da quartieri vittoriani. Qui non c’è mai stato interesse a mantenere in vita palazzi e costruzioni che non fossero funzionali alla crescita commerciale della città. Il presente batte il passato, e ha troppe cose da fare per pensare di pianificare con cura il futuro. Solo negli Anni Sessanta, dopo la demolizione di quel gioiello architettonico che era Penn Station, per far spazio al Madison Square Garden, è emersa una nuova mentalità, che cerca di salvaguardare la memoria storica senza compromettere l’esigenza di fare spazio alle esigenze di una società in continua evoluzione. 

Due pregiudizi, quelli su New York e Napoli, anche loro abbastanza coriacei. Ma nel caso newyorchese, che ormai sto imparando a conoscere, c’è qualche conferma di troppo in tema di crimini violenti. Un pregiudizio sorretto dai numeri, che tutti quanti eviteremmo volentieri, e per questo confidiamo nel Sindaco che verrà dopo l’imbarazzante Bill De Blasio. Un ex poliziotto di Brooklyn, l’afroamericano Eric Adams, potrebbe riportare l’ordine, se non si farà imbrigliare dalla potenza monetaria dei liberal che raccolgono milioni di dollari per ogni causa persa che faccia rima con giustizia sociale. Il pregiudizio sui newyorchesi è di lunghissima data. Non a caso, anche nei film in bianco e nero di cinquanta o settanta anni fa, i maneggioni, gli sbruffoni, i piccoli e grandi criminali avevano spesso un accento newyorchese, di quelli che adesso sopravvivono solo tra i vecchi di Brooklyn. Questi personaggi stereotipati richiamavano alla mente gli irlandesi, gli italiani e altre immancabili teste calde della New York proletaria dell’epoca. Oggi, dopo decenni di rivoluzioni demografiche causate dalle migrazioni interne dal Sud degli Stati Uniti, e poi da quelle esterne dall’America del Sud, i volti della criminalità più diffusa e sfacciata hanno spessissimo la pelle con tutte le possibili tonalità dello scuro. Solo i grandi media televisivi e le testate giornalistiche più diffuse o prestigiose (CNN e New York Times tra tutti, tanto per capirci), evitando la pubblicazione di notizie di cronaca nera dalle principali città americane, oppure con resoconti asettici, privi di immagini sui sospetti e sugli indagati, riescono in qualche modo a rallentare il consolidamento di pregiudizi razziali ed etnici in tema di criminalità. Le statistiche sui reati violenti, e le caratteristiche demografiche di chi delinque, non le legge nessuno, e pochi hanno il coraggio di interpretarle senza toni da propaganda. Perché per ogni elettore gonzo, fanatico e ultra-nazionalista di Trump che senza senso del ridicolo davvero crede che tutti i messicani siano stupratori, c’è almeno un gonzo liberal e progressista che ha votato per Biden credendo che l’America odierna abbia un problema di razzismo sistemico dove gli afroamericani siano soprattutto vittime dei soprusi della polizia. E non, invece, soggiogati da una piccola minoranza di altri afroamericani che rende invivibili centinaia di comunità come Brownsville, attraverso una sottocultura legittimata dall’industria discografica e da quella sportiva. Una sottocultura fatta di violenza, sessismo e omofobia. Bold Lies Matter sarebbe forse uno slogan più appropriato. L’originale Black Lives Matter, pennellato in giallo davanti alla Trump Tower su Fifth Avenue, è miseramente sbiadito nell’indifferenza che avrebbe meritato sin dall’inizio. Lo sappiamo che in America ci sono troppe armi, ma ancor di più sono nelle mani di idioti senza scrupoli. Anche in Europa esistono quartieri periferici come Brownsville a Brooklyn, dove non arrivano gli investimenti dei liberal che sventolano d’essere progressisti dalle finestre dei loro brownstone a Park Slope, ma poi non mettono nemmeno piede nella mia adorata Coney Island perché c’è troppo caos (tradotto: neri e ispanici). In tutte le Brownsville del Mondo, dove spesso è complicato anche solo trovare un giardinetto senza panchine scassate, sono eroi tutti quelli, la stragrande maggioranza, che non diventano criminali e tirano avanti senza lamentarsi, come possono. Il problema è che nelle case popolari delle Brownsville d’America ci sono così tante pistole da far paura, e il più stupido dei criminali diventa pericolosissimo con un’arma in mano. Il guaio è che la retorica giornalistica sulle rare sparatorie di massa, o sull’estremismo della piccolissima minoranza dei bianchi che crede nella supremazia di razza, non spiega mai la realtà dei numeri impressionanti di omicidi e sparatorie che caratterizzano praticamente tutti i quartieri popolari delle metropoli americane. Ancor meno il fatto che i reati più violenti, commessi con pistole, coltelli e pure machete, siano in crescita da due anni, cioè da quando il Covid e poi le proteste per la morte di George Floyd, durate mesi, hanno distratto l’opinione pubblica, spostando risorse e attenzione dagli episodi più gravi di criminalità.

Agosto 2021, anche i poliziotti si divertono un mondo a Times Square!

Pochi casi di violenza a Times Square e dintorni in un paio di mesi estivi non rendono pericolosa una visita per i turisti. Forza! Venite tutti quanti a fare il trenino a Times Square, o anche solo un selfie. Questi sporadici episodi criminali, pur con le debite proporzioni in tema di popolazione, non trovano eguali in nessuna altra meta turistica internazionale, tipo Londra, Parigi, Barcellona o Roma. Rispetto a loro, New York è una malinconica eccezione. Anche nei quartieri più poveri e disagiati di quelle metropoli è difficile che ogni giorno si verifichino sparatorie dove almeno due o tre persone vengano ferite. A New York è la regola, ripresa regolarmente da tabloid e televisioni locali (non dal NYTimes, of course). Se poi questi episodi di violenza avvengono in zone turistiche, e a notte fonda, come nel caso del tizio che ha esploso, sempre in queste settimane estive, dei colpi di pistola contro tre uomini che si trovavano davanti alla biglietteria di Broadway sulle scalinate di Times Square; o del tizio che, sempre dopo mezzanotte inoltrata, ha sparato all’indirizzo di un motociclista lungo Broadway, noi newyorchesi strafottenti vogliamo sempre sperare che il turista non sia così folle d’avventurarsi di notte per la piazza più famosa di una città dove la sicurezza non è garantita al 100% anche quando c’è il sole. Dopo qualche giorno la polizia ha arrestato tutti i responsabili, e le loro foto sui tabloid locali aggiungono mattone dopo mattone al muro del pregiudizio razziale. Non abbiamo invece una soluzione per quei dannati pendolari che ogni giorno s’ostinano a prendere i treni in partenza da Penn Station (cioè la stessa zona del commissariato di Midtown che comprende Times Square). Se un uomo aspetta il taxi fuori dalla stazione, nel medesimo lunedì pomeriggio 23 agosto 2021 di questo diario postumo, e viene colpito da un proiettile esploso da un tizio che voleva ferirne un altro, che cosa possiamo fare noi, se non condannare il malcapitato per il suo pessimo tempismo? Perché aveva deciso di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato? Certo, il capo della polizia di New York, un po’ come quello del Nick Carter dei fumetti, aprirà le braccia sconsolato, scaricando (neanche troppo a torto) la responsabilità delle sparatorie fuori controllo sui magistrati che rilasciano continuamente persone arrestate per possesso illegale di armi da fuoco. Ma il meglio dovrà ancora arrivare. Quando dopo qualche giorno arresteranno l’ennesimo coglione, si, proprio quello responsabile dei colpi esplosi in un pomeriggio qualunque davanti a Penn Station (perché il diario postumo ha informatori che lavorano nel futuro), durante l’udienza di convalida il nostro piccolo gansta apostroferà il magistrato di sorveglianza con l’appellativo “bro”, come se stesse parlando a un suo amico. 

La cosa divertente è che c’è davvero una moltitudine impressionanti di gonzi che va al seggio elettorale credendo che questo tipo di individui siano vittime di un sistema che continuerebbe a discriminarli da 200 anni a questa parte, e non invece semplici criminali autolesionisti, con principi morali, modelli familiari e valori sociali di riferimento perversi. Anche i De La Soul sapevano che le peggiori condizioni di vita non possono mai diventare una scusa per le peggiori scelte che un individuo può fare, che “nel ghetto ci può essere amore e cambiamento”. Tanti afroamericani, oggi, stanno molto peggio dei loro nonni e di chi ha vissuto le discriminazioni razziali precedenti la stagione dei Diritti Civili, ma non lo sanno nemmeno. E anche solo mettere in discussione questa scomoda realtà, con tanto di dati economici e parametri tangibili che testimoniano il rallentamento della crescita sociale avvenuto a partire dagli Anni Sessanta nelle comunità afroamericane, creerebbe uno sconquasso elettorale, una rivoluzione tra il blocco di votanti più fedele che esista in America. Se appena un dieci per cento di neri americani aprisse gli occhi, e decidesse di voltare le spalle al Partito Democratico che da decenni compra il loro voto con le più scontate carote del welfare assistenziale, e tenendoli prigionieri in ghetti pubblici dove non potranno mai realizzare il sogno americano di possedere una casa, i politici Democratici guarderebbero con nostalgia ai tempi bui di Trump alla Casa Bianca. Ma ciò non avverrà, tranquilli. Alla fine d’ogni estate di violenza nelle varie metropoli americane, che sarebbe causata, secondo tutti i politici scaricabarile di turno, dalle scuole chiuse e dal caldo opprimente che darebbe alla testa, riparte il circo sportivo del football e del basket, dove gli afroamericani ricchi e di successo sono la maggioranza. Caro e vecchio panem e circenses. Sussidi e partite via cavo bastano a distrarre le masse, tanto più se anche in quella che è considerata dagli atleti neri una delle città più razziste nello sport, e cioè Boston, ci sarà di nuovo un quarterback afroamericano a dirigere l’attacco della squadra di football professionistico.

Agosto 2021, World Trade Center, “tourists are coming!” (back). Si, piano piano, almeno i turisti americani stanno tornando a New York

A questo punto, mentre mi lego le scarpe, e dopo dieci minuti di elucubrazioni pseudo-sociologiche frutto della mia realtà quotidiana, che non può scomparire solo perché quaggiù ci si abitua a tutto, sono pronto per uscire di casa. Con l’ottimismo di sempre! Il peggio passerà. Sta già passando. Siamo in tanti, proviamo a non pestarci sempre i piedi, tiriamo dritto. Riapriamo i teatri di Broadway, affolliamo i ristoranti, tanti tra noi sono belli e pure vaccinati. Torniamo nel Queens, a Flushing Meadow, per vedere il grande tennis. Ricordandoci che uno dei più famosi tennisti di sempre, John McEnroe, era proprio una testa calda newyorchese, nato e cresciuto nel Queens. 

Nella New York che si lamenta e sbotta in continuazione, che ti manda a cagare per un nonnulla, che non si ferma per nessuna ragione, l’ottimismo è nascosto sotto pelle. Perché non esiste città al Mondo dove l’impossibile sembra possibile. Lo sapeva anche Frank Sinatra che New York è l’unica città dove i sogni possono diventare realtà. Anche quella del Migliore dei Mondi Possibili. Forse lo sapeva pure Pangloss.

Ore 12:07pm (le pippe sociologiche sono durate 12 minuti, a dire il vero)

23 Agosto 2021, panorama di Lower Manhattan dalla passerella pedonale che collega il quartiere di Brooklyn Heights al Brooklyn Bridge Park.

La “destination” per la mia “staycation” è il Brooklyn Bridge Park. Un’ora di passeggiata da casa mia e lo raggiungo. Il resto della famiglia, oggi, ha altri programmi. Sono in “staycation” solitaria. Voglio vedere l’acqua. New York è una città d’acqua, anche se tantissimi newyorchesi faticano a crederlo, chiusi come sono nei loro viaggi in metropolitana. Che l’acqua sia l’elemento più importante di questa città dovrebbe essere scontato. Solo quelli del Bronx si trovano sulla terraferma, tutti noi altri viviamo su isole: Manhattan e Staten Island, per gli omonimi borough; Long Island (proprio quella dei De La Soul) per Queens e Brooklyn. L’acqua e l’incastro delle isole hanno creato un porto naturale, che quei commercianti nati degli olandesi hanno subito sfruttato, dettando il destino di questa terra. Qui a New New York non pensi all’acqua, a dire il vero, nemmeno quando sei bloccato in macchina su un ponte o lungo le grandi strade che costeggiano i fiumi, perché guardi solo davanti a te. Un turista qualunque, di quelli che hanno pochi giorni a disposizione, e magari si fermano solo a Manhattan, ben più che dedicare ore a visitare Central Park dovrebbe invece partire dalla punta di Battery Park e risalire a piedi lungo il fiume Hudson. Chi arriverà dall’Italia, in un futuro che si spera prossimo, troverà anche un nuovo parco, Little Island, nella stessa zona del Meatpacking District e del Whitney Museum. Andataci, consiglio utile, vi metterà di buon umore con la sua passeggiata che si snoda per le collinette artificiali ricavate sui piloni che sembrano un’onda.

23 Agosto 2021, Brooklyn Bridge Park. Che sia in passeggino o in monopattino, a noi newyorchesi non ci ferma nessuno… Fate largo all’avanguardia!

Ma io oggi non cerco l’acqua dolce del fiume, bensì quella salata del mare, senza dover per forza andare a Coney Island. L’East River è la mia terza via, l’ideale soluzione di mezzo. Perché, a dispetto del suo nome, l’East River non è un vero fiume. La sua acqua è un misto creato dall’Harlem River e, soprattutto, dal Long Island Sound. Un po’ d’acqua dolce e tanto, tanto mare, a separare l’estremità occidentale della Long Island dove poggiano Queens e Brooklyn dall’isola di Manhattan.

Il cielo, ancora decisamente grigio, il vento sta provando a spedir via le nuvole più scure. Henri se n’è andato in New England, e sapevamo che non avrebbe lasciato grandi danni da queste parti. Gli uragani non vanno mai presi sottogamba, nemmeno se diventano solo tempeste tropicali. L’acqua di sabato sera sembrava interminabile, e così per tutta la giornata di ieri. Oggi sembra di stare in un altro pianeta.

Ho con me una giacca impermeabile leggera. Ché se non l’avessi portata, ovviamente, sarei stato massacrato da Giove pluvio. Le previsioni dicevano che non avremmo dovuto escludere qualche temporale passeggero, cioè altre cascate residue portate da Henri. Stesso discorso per le scarpe più pesanti, quelle quasi a prova di palude delle foreste del sudest asiatico. L’acqua dal cielo non s’è vista, e i piedi bolliti hanno maledetto la scelta di non indossare le più semplici scarpe da ginnastica disponibili nel mio antiquato guardaroba. Si, vivo nella città più figa al Mondo (fatevene una ragione, voi che vivete a Piombino, arrivate solo secondi) ma non posseggo abiti fighi. Banali magliette monocolore, banali pantaloni, poche camicie, ché ho dimenticato da tempo cosa sia un ufficio. Anni fa, una donna con uno spiccato senso del sarcasmo, occhi vivaci e amore per la semplicità delle margherite, mi disse che indossavo i jeans come fossero i pantaloni di una tuta. Va bene, era un modo simpatico per dirmi che non ero il suo tipo. Ma non è che avesse tutti i torti. Adesso i miei jeans sono migliorati. Così, per dire che il vino migliora invecchiando.

21 Agosto 2021, Brooklyn Bridge Park.

Seduto poco distante, sulla stessa panchina dove mi sono accasciato, c’è un giovane papà con il suo bimbo, che potrà avere al massimo sei mesi. Sono belli, insieme, ma sto facendo uno sforzo terribile per non guardarli troppo. Vivere a New York insegna a farti i cazzi tuoi. A contenere quella curiosità morbosa che si trasforma, per noi italiani, in smania di giudicare tutto e tutti pur sapendo niente. Nasciamo provinciali, noi italiani, e la maggior parte di noi rischia di morire tale, perché ce la cantiamo sempre tra noi. Guarda come veste quella, guarda cosa mangia quello, guarda cosa ha comprato Tizia, senti come parla Caio, guarda come si muove Sempronio. E giù fino all’ultimo dei nomi che i più letterati avranno scovato nelle versioni di latino al liceo. Da quando vivo in America ho smesso di giudicare le persone dal modo in cui vestono o parlano, anche se non riesco ancora a mandare giù proprio del tutto le cravatte viola dei telecronisti sportivi in tivvù. La lotta contro i più subdoli pregiudizi etnici e razziali, come dovrebbe essere chiaro dalle note che scrivo qui sopra, è immane; ma almeno non faccio più battute sceme perché qualcuno è magro o grasso, e non faccio simpaticamente gli occhi a mandorla come alla Juventus e non racconto che c’erano una volta un tedesco, un francese e un… Anche quando scatto fotografie per l’inutile guida umana su Instagram, o perché un giorno potrebbero servirmi per questo blog strambo, non mi soffermo mai più di tanto a fissare le persone che provo a fermare nelle immagini. Spesso lancio solo un’occhiata di sfuggita, veloce, e poi punto nella direzione desiderata, senza essere visto, scattando a ripetizione. È solo un’altra forma di morbosità, niente affatto migliore delle precedenti, ma il più possibile priva di moralismo. Cerco solo di costruire un piccolo catalogo dei miei simili qui a New York. Quando mi fermo, guardo cosa sono riuscito a raccogliere con l’obiettivo del mio telefonino. La maggior parte degli scatti fa schifo, se poi c’è poca luce è tutto da cestinare. Adesso sto spulciando cosa ho fotografo mentre venivo quaggiù al parco. Maledico di non essermi portato dietro un libro da leggere.

MARTEDÌ 24 AGOSTO 2021

Ore 12.26pm (si, ho visto l’ora)

Decido di tornare anche oggi al Brooklyn Bridge Park. Non è solo scarsa fantasia o troppo tempo libero a disposizione in queste ultime giornate d’agosto. È prima di tutto la banale urgenza d’annusare l’odore del mare che sale dalla baia. È cosi da quando mi sono traferito quaggiù, e ho sentito il bisogno di un legame con la natura. No, aspetta, non sono quel tipo di persona. Tra una passeggiata nei boschi e una davanti ai magazzini ai bordi della ferrovia, capace che io preferisca la seconda, anche nelle ore più afose del giorno. È sempre stato così, anche quando vivevo a Torino e avrei potuto andare a camminare tra i boschi in collina. La qual cosa, un “vero” torinese, non fa, perché per noi la collina non esiste: e solo il luogo dove vivono i ricchi o dove imboscarsi con qualcuno. La mia nostalgia di Torino, quando sono arrivato qui a New York, era per qualcosa che inizialmente non riuscivo nemmeno a definire. Poi ho capito. A Torino, da tantissimi angoli della città, è possibile scorgere segni forti del paesaggio naturale. Le montagne, le colline, e poi i fiumi, ché la città ne ha ben quattro. Non ci ho mai fatto caso, alla loro presenza, fino a quando non sono spariti dalla mia vista quotidiana. A New York, anche nei quartieri dove gli alberi e i parchi abbondano, mi mancava questo legame continuo con la geografia di cui gli esseri umani non sono veri artefici, se non minimamente. Ecco di cosa sentivo la nostalgia. Grandi ponti, alti palazzi, larghe strade, ma zero colline, e tanto meno montagne dalla finestra di casa. Così, già dopo pochissime settimane, quando vivevo a Bay Ridge, all’estremità sud-occidentale di Brooklyn, ho iniziato la mia relazione con l’acqua della città. Andavo sul molo al fondo di Bay Ridge Avenue, il Pier 69. Mi sedevo con il mio computer sui tavoli in cemento, cercando di proteggere in qualche modo lo schermo dai raggi del sole. Davanti a me, la punta di Battery Park e del Financial District. Il World Trade Center era già quasi completato, a metà primavera avrebbero innalzato il pinnacolo che lo avrebbe reso il grattacielo più alto nell’emisfero occidentale. Alle mie spalle, il Ponte di Verrazzano, reso famoso dalla partenza di ogni maratona di New York. Spostando lo sguardo di poco alla mia sinistra, potevo vedere Lei, la Statua della Libertà. Insomma, tutta New York all’ennesima potenza, potevo scorgere pure l’Empire State Building. Soprattutto, ero “dentro” la baia di New York. Potevo respirare il profumo del mare, anche se non era come stare in Sardegna o a Miami. Vivevo in una grandissima città e potevo sentire il rumore del mare (ma non avrei mai potuto scrivere cartoline d’amore come quelle di Dino Campana a Sibilla Aleramo).

24 Agosto 2021, Brooklyn Bridge Park, panchina davanti alla baia di New York

Oggi c’è il sole.

Oggi, la mia New York, è maledettamente bella.

Si, è bella pure lei.

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