Staten Island, Broad Street, NYC, New York City, New York, Guida Inutile NEW YORK, Denis Spedalieri
Cibo,  Luoghi

Staten Island, dove fuggire in un giorno di pioggia

L’acqua che arriva dal cielo è un buon motivo per solcare quella della baia di New York, un ristorante cingalese è quello per sbarcare nel borough meno conosciuto della città

 

 

Mi capita ancora di parlare con i miei interlocutori in inglese ma prendere appunti in italiano mentre li ascolto. Allo stesso modo, non è raro che legga qualcosa in inglese e poi annoti in italiano.

Piano, pugno, porno. Sto provando in tutti i modi a scrivere pegno utilizzando la tastiera veloce del telefonino. Non mi aiuta nemmeno la funzione di passaggio veloce dal dizionario inglese a quello italiano. Al terminal del traghetto per Staten Island il grande schermo scorrevole ricorda agli abitanti dell’isola che possono pignorare ciò che desiderano, dai gioielli alle auto, e che con Metro Plus possono ottenere l’assicurazione sanitaria più economica. Eccezione significativa in tutta la città di New York, laggiù gli elettori bianchi possono pure aver votato in massa per Donald Trump; ma è Obama che anche loro devono ringraziare se possono curarsi senza andare in bancarotta.

New York non ha la nebbia frequente di Londra, e nemmeno quella regolare e primaverile di Istanbul, che pure lei è circondata dall’acqua e può essere considerata una sorta di sorella maggiore che vive tra l’Europa e l’Asia. Ma anche in assenza di vera nebbia, la pioggia e la foschia offrono le condizioni ideali per attraversare la baia newyorchese e andare a Staten Island. La traversata in una giornata grigia e umida è consigliata a chi adori viaggiare in solitaria, agli amanti respinti, a chi voglia rimuginare su un progetto ancora indefinito e a chiunque cerchi un ristorante cingalese. Io ho il pettorale della quarta categoria. Ma per chi si trovasse a Manhattan per turismo, ve ne potrebbe essere pura una quinta: la semplice voglia d’andare controcorrente e, soprattutto, lontano dalla solita folla.

LA STORIA DELLO STATEN ISLAND FERRY

Staten Island Ferry, Guida Inutile NEW YORK, Denis Spedalieri
Interno dello Staten Island Ferry (fotografia di Denis Spedalieri)

Gli storici più appassionati dello Staten Island Ferry — sprezzanti del ridicolo e forse anche tra i meno interessati all’idea che in questo continente già vi fossero delle popolazioni indigene ben prima di Cristoforo Colombo — fissano le sue origini (giuro che non è uno scherzo) nell’aprile del 1524, quando Giovanni da Verrazzano fu il primo europeo ad entrare nella baia di New York. Sappiamo che il fiorentino, in viaggio per conto del re francese Francesco I, già che si trovava in zona ha fatto tappa pure a Staten Island. E questo, a taluni, basta per considerarlo un precursore naturale dell’attuale traghetto. Ma lui, oltre a credersi in India, pensava che la baia fosse, in realtà, solo un lago. Dopo Giovanni da Verrazzano, gli stessi storiografi citano ovviamente, e con qualche ragione in più, anche il navigatore inglese Henry Hudson, arrivato da queste parti per conto degli olandesi nel settembre 1603. Saranno proprio gli olandesi a nominare l’isola “Staaten Eylandt”, in onore del parlamento olandese, il cui nome è Staten Generaal (Stati Generali). L’isola, a dire il vero, un nome già ce l’aveva: nella lingua dei Lenape — la popolazione nativa che abitava l’area prima dell’arrivo degli europei — si chiamava Aquehonga Manacknong, cioè il posto dei boschi malefici. Insomma, il luogo non era dei più salubri.

Per le cronache più diffuse è il 1747 l’anno in cui parte ufficialmente il primo traghetto che collega Manhattan a Staten Island, con un servizio offerto da Otto Van Tuyl, un olandese che aveva capito come far fruttare nel migliore dei modi il terreno sul quale sorgeva la sua azienda agricola: era riuscito a farsi dare soldi pubblici per costruire un terminal sulla sua proprietà privata. Ma già nel 1745 c’era notizia, pubblicata dal N.Y. Weekly Post Boy, di un traghetto gestito dalla Narrows Ferry di tal Silvanus Seamans, ogni martedì e giovedì.

Staten Island
Staten Island, New York (fotografia di Denis Spedalieri)

L’attuale servizio dello Staten Island Ferry, con una flotta di 8 traghetti, è operato dalla città di New York dal 1905. Gli abitanti e i visitatori dell’isola hanno sempre pagato un biglietto per navigare lungo la baia di New York. Ma dal 1997, per gentile concessione dell’ex Sindaco repubblicano Rudy Giuliani, in cerca di rielezione a mani basse, sul traghetto si viaggia gratis. Lo Staten Island Ferry, operante 24/7, non è solo il principale mezzo di trasporto per i pendolari che lavorano a Manhattan. È anche una delle principale attrazioni turistiche di New York, pur non avendo quella funzione primaria.

FORZA, VENITE GENTE

Ogni giorno almeno 70.000 persone usano i traghetti della linea. La lotta tra turisti e pendolari del traghetto si gioca in prevalenza nella sala d’aspetto dei terminal, dove le panchine non sono mai abbastanza, proprio per colpa dei non-newyorchesi che viaggiano al risparmio. Una volta a bordo, invece, questi ultimi non minacciano più di tanto l’esistenza dei pendolari: i turisti sono gli unici, infatti, ad accalcarsi sui ponti, spesso anche nelle giornate più fredde, lasciando cosi liberi i posti a sedere per chi debba andare al lavoro o voglia solo tornare a casa in pace. L’obiettivo principale dei turisti è quello d’ammirare dal punto d’osservazione più vicino possibile la Statua della Libertà, senza dover pagare un biglietto per sbarcare sull’isoletta che la ospita. E poi, naturalmente, vogliono anche poter fotografare la punta di Manhattan, con i suoi immancabili grattacieli.

State Island Wheel, Staten Island, ruota panoramica di New York, New York City
Come sarà la ruota panoramica di Staten Island (fonte New York Wheel)

Una volta arrivati sull’isola, quasi sempre i turisti mordi-e-fuggi non si azzardano a lasciare l’area del terminal ma si trasferiscono sul primo traghetto che possa riportarli indietro. Politici e imprenditori di Staten Island sperano d’invertire presto la tendenza. Per convincere i turisti a scendere sull’isola, e per attrarre newyorchesi col portafoglio in provenienza dagli altri borough, la costa nord di Staten Island sarà oggetto di 600 milioni di dollari in investimenti pubblici e un miliardo di dollari in fondi privati, comprensivi di nuove aree abitative e commerciali. Ad oggi sono in costruzione un enorme outlet con 125 negozi monomarca (sarà l’unico di tutta NYC) e quella che sarà una delle più grandi ruote panoramiche al Mondo, con 190 metri d’altezza e 38 minuti di singola corsa. Ognuna delle 36 cabina della ruota potrà accogliere 40 persone. Su alcune cabine sarà possibile ospitare eventi privati, pranzare e cenare in ambiente di lusso. Il biglietto semplice costerà almeno 30 dollari a persona. Una volta terminati i lavori di assemblaggio, si stima che la ruota panoramica sarà costata 590 milioni di dollari. Solo per fare un paragone veloce: con quella cifra, nel 2006, la Città di Torino ha costruito sei delle prime dieci stazioni della sua metropolitana automatica. Welcome to Ammerica, paisà.

Sbarcati a Staten Island, lasciare il terminal è abbastanza intuitivo anche senza seguire le indicazioni. Ma le uscite sembrano ottimizzate soprattutto per l’uso della locale linea di metropolitana — Staten Island Railway — o degli autobus. Raggiungere a piedi l’adiacente quartiere di St. George è forse considerata un’attività per pochi eccentrici in arrivo da Manhattan, nonostante qui vi sia la presenza di alcuni tra i principali punti d’interesse di tutta l’isola: il Borough Hall (cioè il palazzo municipale), gli uffici giudiziari e il teatro che porta lo stesso nome del quartiere.

Staten Island, Staten Island Borough Hall, Guida Inutile NEW YORK, New York City
Il Borough Hall di Staten Island (fotografia di Denis Spedalieri)

Staten Island è poco meno estesa di Brooklyn, alla quale è collegata dal lungo Verrazano Bridge, che qui ha letteralmente perso la seconda “z”. Pur facendo parte della città di New York, l’isola è geograficamente un’estensione del New Jersey. Molti newyorchesi tendono a non considerare l’esistenza di Staten Island, quando non a negarne l’appartenenza sostanziale al resto della città. Tra i 470.000 abitanti dell’isola molti sono orgogliosi della loro diversità e qualcuno, periodicamente, ripropone pure l’idea di un referendum per staccarsi dalla città di New York. Staten Island è stata, di fatto, la discarica di New York City per 50 anni: un matrimonio d’interesse, perché da qualche parte la spazzatura della metropoli doveva pure finire e sull’isola ci è finita a suon di dollari per i suoi residenti. Dopo la tragedia dell’Undici Settembre la gigantesca discarica, che prendeva il nome di Fresh Kills, ha riaperto le sue porte per ospitare le macerie di Ground Zero. Ma l’ultima vera chiatta carica di rifiuti è arrivata a Staten Island il 22 marzo 2001. Nel 2037, dopo la necessaria bonifica e messa in sicurezza della vecchia discarica, laggiù i più fortunati vedranno il completamento del più grande parco newyorchese, tre volte l’estensione di Central Park. Io punto ai 68 anni solo per vedere l’inaugurazione, e poi tornare a morire come un elefante tra le esalazioni di biogas Basse di Stura, la mia amata discarica torinese ormai in disuso.

CERCANDO COLOMBO (NON CRISTOFORO) A NEW YORK

Stapleton, Staten Island
Quartiere Stapleton, costa nord di Staten Island (fotografia di Denis Spedalieri)

Dal terminal dei traghetti, e proseguendo per poco più di due chilometri lungo Bay Street in direzione sud, serve mezz’ora di camminata per raggiungere la meta della nostra fuga a Staten Island: il ristorante cingalese Lakruwana. Sotto una pioggia leggera, seppur insistente, si arriverà a destinazione con un po’ di umidità in corpo. Se Giove Pluvio sarà invece furioso, una cerata non sarà sufficiente. Figurarsi una giacca impermeabile che decide di fermarsi giusto una manciata di centimetri sopra le ginocchia, così da consentire all’acqua di non scivolare a terra e depositarsi invece sulle gambe. Miglior acquisto di sempre per la categoria “giacca impermeabile solo fino a un certo punto”.

LAKRUWANA Sri Lankan Restaurant, Staten Island, Little Sri Lanka, New York City, Guida Inutile New York, Denis Spedalieri
Ristorante cingalese “Lakruwana” a Staten Island, New York (fotografia di Denis Spedalieri)

Kolamba, o කොළඹ se avete dimestichezza con il cingalese, è la New York dello Sri Lanka, la sua capitale commerciale. Per noi italiani, e anche per gli americani, è più semplicemente Colombo. A Staten Island esiste una Little Sri Lanka che è davvero piccola, composta solo da qualche sparuto negozio e alcuni ristoranti tutti concentrati in Victory Boulevard. Ma l’isola, nel quartiere Tompkinsville, ospita comunque la più numerosa comunità di cingalesi in città, circa 5.000 persone. Vivono in prevalenza sulla costa nord, che è anche quella con il più alto numero di immigrati dell’intero borough. Se non fosse per questa parte dell’isola, che ha caratteristiche urbane comuni alla maggior parte di New York, Staten Island sarebbe molto più simile a tanti “suburbs” e a tante città della provincia americana, dove i bianchi sono la maggioranza e i redditi sono nettamente più elevati della media. Tra i bianchi, circa 175.000 sono gli italo-americani, pari a oltre un terzo dell’intera popolazione del borough. Se vi state chiedendo per chi abbiano votato in massa i nostri compaesani alle Elezioni Presidenziali del 2016, la risposta è proprio quella: Donald Trump. “… E ho detto tutto!”.

La scelta di pranzare al Lakruwana, e non provare uno dei ristoranti in Victory Boulevard, è frutto del puro caso. Non avevo la più pallida idea che il Lakruwana fosse stato recensito addirittura dal New York Times o che per alcuni critici gastronomici locali la sua cucina fosse ottima ma un po’ “meno intensa” di quella di altri ristoranti cingalesi di Staten Island. Salvo che voi non siate nati e cresciuti in Sri Lanka o esperti di cucine del subcontinente indiano o allievi di Vittorio Castellani, aka Chef Kumalè, non credo sareste in grado di percepire un’assenza d’intensità nei sapori di uno qualunque dei piatti della tradizione cingalese. Accetto smentite, ma solo da chi è anche in grado di pronunciare correttamente Sri Jayawardenepura Kotte pure in lingua tamil.

L’OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE, ANCHE QUANDO È DALTONICO

Lakruwana Sri Lankan Restaurant
Ristorante cingalese Lakruwana, zuppa “mulligatawny” (fotografia di Denis Spedalieri)

Pare che il ristorante cingalese più in voga in questo periodo a Staten Island, e pertanto in tutta New York, sia il New Asha. Classico “hole-in-the-wall” — come vengono quaggiù chiamati i locali piccoli, senza fronzoli, come le tavole calde — il New Asha sta salendo agli onori delle cronache locali perché ci ha pranzato pure il nostro Sindaco, Bill De Blasio. Ma la notizia non è che lui abbia apprezzato la cucina dello Sri Lanka, quanto che abbia mangiato con le mani. Finalmente. Perché i newyorchesi ancora ricordano con orrore quando De Blasio, eletto da poco, si è presentato in un ristorante proprio qui Staten Island e ha mangiato la pizza con forchetta e coltello. Alto tradimento, lesa maestà. Se per un qualunque milanese non esiste un modo più appropriato di mangiare la pizza (soprattutto quella che lui chiama “alla napoletana”), per un qualunque newyorchese la pizza (tutta, e non solo la semplice fetta o “plain slice”) si mangia esclusivamente con le mani, come fa un qualunque romano con la sua pizza al taglio. Un bambino a New York impara fin da piccolo a piegare la sua fetta, lungo l’altezza del triangolo di pomodoro e muzzadell’, con precisione geometrica. Walyun (guaglio’), fold that slice!

Il Lakruwana, all’incrocio di Bay Street e Broad Street, è tutto l’opposto di un hole-in-the-wall. Fin dalla porta che si affaccia sulla strada, dove si trovano grandi statue in pietra, si capisce che l’esperienza sensoriale non si fermerà al palato. La sala del ristorante — le cui finestre non lasciano passare un raggio di luce naturale che sia uno dall’esterno — è satura d’oggetti. Vasellame, quadri, scaffali, piante, candele, tessuti, diverse statue di Buddha. Nel seminterrato è stato ricavato anche un piccolo museo, che io ho però snobbato per la tavola e con la scusa che avevo ancora i pantaloni fradici.

Le porzioni del pranzo, anche in un giorno feriale, sono tali da annientare qualunque parvenza di produttività pomeridiana prima dell’ora dell’aperitivo. Magari, integrando ulteriormente la mancia al cameriere, è anche possibile la pennichella in loco, ma non ne ho la certezza (ah, non dimenticate mai: a New York è buona cosa lasciare sempre una mancia almeno attorno al 20% del totale, calcolato sull’ultima cifra che appare nello scontrino prima che vengano aggiunte le tasse. La mancia non ha niente a che vedere con la vostra generosità. È semplicemente il grosso della paga che il vostro cameriere riceverà a fine giornata. Senza mance, farà la fame. Davvero).

Lamprie, Sri Lankan Lakruwana Restaurant
Lamprie d’agnello al ristorante cingalese Lakruwana, Staten Island (fotografia di Denis Spedalieri)

Decido di iniziare il mio pasto con un “mulligatawny”, una zuppa a base di verdure, pollo, erbe e spezie, servita in una ciotola in legno. Come portata principale decido invece di provare un “lamprie” di agnello. Trattasi di un piatto elaborato, un curry composito, dove la carne scelta si unisce anche a: filetto di pesce, melanzane, anacardi, banana, uovo e ad un seeni sambol, un’altra pietanza a base di cipolle, aglio, cardamomo, peperoncino, cannella e polpa di tamarindo. C’è un termine che noi critici gastronomici mancati utilizziamo per descrivere sinteticamente un piatto simile: spettacolo. Nel gergo delle recensioni, seppur talvolta oggetto di censura da parte dei puristi, è in genere ammesso anche l’uso della forma aggettivale: spettacolare.

Un consiglio spassionato, oh voi coraggiosi che avete osato sbarcare dallo Staten Island Ferry per venire a desinare sin quaggiù, per giunta sotto le intemperie, come suggerito dalla vostra romantica Guida Inutile. Abbuffatevi a capo chino, concedendovi giusto una finestra temporale minima per la respirazione di rito associata alla deglutizione, ma senza cedere alla tentazione di fotografare il piatto e postare poi sul vostro social media preferito. I vostri amici italiani (più correttamente: gli amici in Italia) potrebbero non condividere il vostro genuino entusiasmo. Prima di profferire verbo con umiltà, aspetteranno che almeno uno tra loro si faccia avanti per primo, possibilmente obiettando che il colore del piatto non è proprio così attraente. Non li ingannerete con Lightroom. A quel punto, anche altri troveranno la forza di condividere con voi le loro perplessità, dettate meramente non dal desiderio di criticare sulla base dell’apparenza (giammai!), quanto da quello di rammentarvi implicitamente che noi italiani, anche in fatto di cibo e non solo di calzini, abbiamo canoni estetici che manco D’Annunzio. Che possiamo farci, noi eredi di Borgia e della Gioconda, se questi canoni potrebbero spingerci fino al punto di naturale ritrosia verso pietanze che non siano rosse, verdi e bianche? Probabile che i genitori dei nostri nonni passassero giornate intere a spaccarsi la schiena con un solo pastone incolore in pancia e che mai avessero sentito nominare l’Artusi. Ma questo marrone su un piatto tradizionale cingalese, che pare venga cucinato da 300 anni, proprio non si può vedere, signora mia! Insomma: mangiate e fatevi i cazzi vostri.

PAUSA CAFFÈ

Every Thing Goes Books Cafe, Staten Island
“Every Thing Goes – Books Café”, Staten Island (fotografia Denis Spedalieri)

Con lo stomaco pieno, la palpebra calante e la solita pioggia che ancora non accenna a farsi da parte, si fa sentire l’urgenza di una dose massiccia di caffeina post-prandiale. Il posto giusto si chiama “Every Thing Goes, Book Cafe”. Fa parte di un piccolo gruppo che comprende altri due negozi, sempre qui a Staten Island: uno dedicato ai vestiti, l’altro ai mobili, tutti rigorosamente usati. Nella libreria potrete trovare scaffali colmi di volumi usati, immancabile caffè biologico, diverse varietà di the, cioccolato e altri prodotti del commercio equo e solidale. Diversamente da quanto accade nei locali per i progressisti e i radicali di sinistra che vivono nei quartieri benestanti di Brooklyn e Manhattan, in questo colorato locale di St. George si percepisce davvero un senso di comunità. Non c’è spazio solo per mostre di artisti locali o per il più classico merchandising anti-globalizzazione, che spazia dalle vecchie spillette di Occupy Wall Street a quelle con la sagoma stilizzata dei capelli di Bernie Sanders. Qui all’ETG, oltre al wi-fi libero, si trova ancora un residuato di tempi che sembrano ormai remoti: un Internet cafe. È fondamentale per garantire accesso alla rete a chi non abbia, come capita a noi fortunati “gentrificatori” dal cuore e dal portafoglio d’oro, l’ultimo ultra-sottile computer portatile o lo smartphone progettato da aziende dove la quasi totalità degli ingegneri e manager sono ricchi giovani dalla pelle bianca, che nemmeno a parole concepiscono l’esistenza di donne o minoranze.

L’internet cafe dell’ETG, solo apparentemente anacronistico, come il resto del locale è frequentato da tanti afroamericani che vivono in zona. Tutta la costa nord di Staten Island, proprio a partire dai quartieri di St. George e Tompkinsville, non è solo quella con la più alta percentuale di diversità culturale e demografica, ma anche la più povera di tutta l’isola.

LA MORTE DI ERIC GARNER

A una decina di passi dalla libreria, sempre su Bay Street, nel luglio 2014 si è consumato uno dei eventi più tragici della recente Storia newyorchese e americana. Avvicinato da alcuni agenti di pattuglia nella zona, un uomo afroamericano di 43 anni, Eric Garner, è stato bloccato da uno dei poliziotti, Daniel Pantaleo, che gli ha stretto un braccio intorno al collo e lo ha spinto a terra. Anche a causa di questa mossa (chokehold) — spesso usata in passato da tutte le forze dell’ordine e messa fuorilegge dalla polizia di New York per la sua pericolosità — e della pressione sul suo corpo mentre era immobilizzato, Eric Garner è morto per asfissia. Sembra che Garner fosse stato fermato, come già altre volte in passato, per vendita illegale di sigarette. Nel video ripreso da un suo amico, si può vedere e ascoltare Garner chiedere ai poliziotti di lasciarlo in pace e lamentarsi d’essere sempre preso di mira. Una volta a terra, Garner ripete più e più volte che non riesce a respirare. La sua morte e la drammaticità del video sono stati scioccanti per gran parte dell’opinione pubblica americana e hanno dato vita al “Black Lives Matter”, un movimento di protesta diffuso in tutti gli Stati Uniti e che cerca di mantenere viva l’attenzione sull’abuso della violenza da parte dei poliziotti sugli afroamericani.

Nel luogo esatto della morte di Eric Garner adesso si trova un piccolo memoriale improvvisato, costituto da una grande scatola in plastica. Ci sono fotografie, fiori, peluche. Al suo fianco, in questo isolato che per i residenti è sempre stato un luogo di piccola criminalità e spaccio di droga, ci sono due uomini e un tavolino. La pioggia sta forse rallentando la quotidianità. Ma dopo pochissimo, un giovane si avvicina ad uno dei due uomini. Con uno scambio veloce e all’altezza della ginocchia, in una mano riceve qualcosa e con l’altra lascia una banconota.

Staten Island
Staten Island, Bay Street (fotografia di Denis Spedalieri)

Intervistato dalla radio pubblica newyorchese WNYC, il proprietario di uno dei negozi che si affacciano su questo tratto di Bay Street ha detto che dopo la morte di Eric Garner le cose sono peggiorate, perché ora la polizia non mette più piede quaggiù. Altri commercianti, associandosi alle sue parole, vedono nella criminalità e nei tossicodipendenti la causa che tiene lontana i clienti. In una giornata grigia come questa, è sufficiente passeggiare qui intorno e osservare le vetrine per ricavare un senso di desolazione che solo la presenza della libreria sembra alleviare.

GIRO DI BOA

Con la mia passeggiata arrivo su Central Ave, ma non per caso. Voglio fermarmi alla biblioteca pubblica di quartiere.

“Ma venite tutti qui per andare in bagno?”. Il custode seduto all’ingresso della biblioteca me lo dice con un sorriso al limite del seccato. Però non ha nemmeno così torto. Non sono l’unico ad avvicinarmi per chiedere la chiave per andare in bagno. E qui la regola è pure più contorta, perché la chiave non può essere mai abbandonata dal custode, che deve seguirti, aprirti la porta dei servizi e aspettare che tu abbia terminato. Qualche ragione per lamentarsi ce l’ha pure lui.

C’è molto di più, qui dentro, e non parlo solo di comode sedie per pennichelle pomeridiane e Wi-Fi libero.

Staten Island, Paramount Theatre
Staten Island, il vecchio e ormai chiuso Paramount Theatre nel quartiere Stapleton (fotografia Denis Spedalieri)

Grazie ai consigli dei bibliotecari, in esposizione c’è un libro di qualche anno fa dedicato alla Storia dell’immigrazione negli Stati Uniti e al suo ruolo nella crescita del Paese. Scritto da un giornalista della televisione pubblica americana, inizio a leggerne alcuni capitoli. Tenuto conto che siamo in uno dei rari quartieri di Staten Island dove Trump non ha ottenuto la maggioranza dei voti, e dove immigrati e minoranze varie da sempre determinano il profilo demografico, la scelta di esporre questo libro è suggerirne la lettura non è affatto casuale. Sebbene invitato da una delle impiegate, non posso, invece, votare per i progetti sottoposti al bilancio partecipato, perché per quelli devi risiedere nella zona dove i progetti sono in competizione. Centinaia in tutta la città di New York, e sui quali noi abitanti siamo chiamati a dire la nostra una volta all’anno: dai nuovi giochi per bambini o fontane nei giardini pubblici ai miglioramenti proprio nelle biblioteche di quartiere, e così via.

La pioggia pare essersi acquietata. Torno verso il terminal dei traghetti per Manhattan. A bordo decido di prendere posto sul ponte. La temperatura è decisamente più bassa che al mattino. Alzo le spalle per proteggere il collo e mi metto a sedere a braccia conserte, sperando di evitare la sensazione di freddo. A quest’ora del tardi pomeriggio, qui all’aperto, i turisti non arrivano a contarsi sulle dita di una mano. Sulla mia destra, qualche metro più in là, un uomo si è appena seduto e si sfrega le mani per scaldarsi. Ci scambiano un veloce sguardo. È evidente a entrambi che non siamo turisti.

“Non è pazza e bella questa baia? Mi piace sempre venire a sedermi qui fuori”. Joseph vive a Staten Island e lavora come ufficiale addetto alla sicurezza pubblica in Times Square. Sta giusto recandosi al lavoro. Assieme ai suoi colleghi collabora con la polizia di New York per rendere vivibile a milioni di visitatori una delle piazze più caotiche al Mondo. Per gli abitanti della città il problema non si pone: a meno di non lavorare laggiù, o di andare nei teatri di Broadway, Times Square viene evitata accuratamente.

Staten Island Ferry, Staten Island
Baia di New York, traghetto per Staten Island

Io e Joseph, nel breve viaggio che ci separa da South Ferry, riusciamo a trovare il tempo per parlare praticamente di tutto. Dei suoi figli in New Jersey, ormai grandi, che non vanno a trovarlo ed è già un miracolo se di tanto in tanto fanno una telefonata. Dell’autolesionismo di tanti giovani afroamericani con i quali si confronta e che pensano di trovare una facile scorciatoia nella piccola criminalità. Delle bellezze dell’Italia, ovviamente. Dell’eredità della schiavitù in America. Riesco a strappargli una specie di mezza risata amara quando gli rammento che i miei lontani antenati italiani, nella Roma dei Latini, in fatto di schiavitù erano abbastanza esperti.

Ci salutiamo alla fermata della metropolitana, io e Joseph. Con la speranza, prima o poi, di rivederci da qualche parte in città o sul traghetto.

E se New York è davvero pazza come la sua baia, ci rincontreremo di sicuro.

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