Architettura che sale, e per il sale
L’architettura di New York è varia anche nei suoi usi. Facciamo un giro da Tribeca al nuovo Whitney Museum, passando per quello che potrebbe ma non è un museo.
Siete a spasso per New York, godetevi un privilegio raro, almeno da queste parti: alzate lo sguardo. Non che ad un newyorchese sia preclusa questa possibilità elementare. Semplicemente, chi abita in una città, anche se famosa e sognata dalla metà degli esseri umani, non fa più caso all’ambiente circostante, meno che mai all’architettura.
Ho capito questa cosa anni fa da torinese a Roma. Dopo averci abitato per un po’, ho iniziato a frequentarla regolarmente per lavoro. Quando giravo in macchina, il Colosseo era diventato una rotonda come un’altra.
Tranquilli, New York non è bella come Roma. Dico solo che dopo tre anni quaggiù anche il mio raggio visivo sta riducendo la sua portata. Ieri, mentre attraversavo il Ponte di Brooklyn, l’unica cosa cui prestavo attenzione erano le biciclette in senso opposto. E a proposito, turisti fortunati: ricordatevi che quella vecchia struttura a cavallo dell’East River non è un belvedere, è un vero Ponte, utilizzato anche da chi va al lavoro a piedi o in bicicletta e poi cerca pure di rientrare a casa. Fate le vostre foto e dopo, tradotto nella lingua dei locali: get outta the way.
ARCHITETTURA A NEW YORK = PRAGMATISMO
Le vostre guide contengono pagine e pagine sull’architettura di New York e non sia mai che io mi sostituisca a loro. Almeno, non adesso. Seguitele passo dopo passo e saprete viti, terracotta e miracoli della facciata del “Little Singer Building”. Capace che un newyorchese, molto più ossessionato dalla distanza che separa il suo sacco di panni sporchi dalla più vicina lavanderia, non abbia mai sentito nemmeno parlare del “Singer Building”, quello della macchina da cucire, figurati del fratello piccolo che sopravvive su Broadway quasi all’angolo con Prince Street. E poi questa città evolve a velocità esagerata, giurochenonèunafrasefatta. Certo, dopo lo scempio che ha tirato giù la storica Penn Station, ancor più monumentale della superstite Grand Central, la città si è poi dotata di una Commissione per la Salvaguardia dei Luoghi di Interesse Storico. Ma qui pragmatismo e portafoglio vengono prima, facciamocene una ragione. Dopo 60 anni la torre del “Singer Building” era troppo stretta per ospitare uffici, il nuovo proprietario non sapeva come farla fruttare, la città non poteva metterci un dollaro che fosse uno per comprarsi un reperto storico. Risultato? Tirata giù nel 1968, insieme al resto del palazzo. Al suo posto un nuovo grattacielo, anonimo ahi noi, One Liberty Plaza, a due passi dallo Zuccotti Park che molti ricordano per Occupy Wall Street.
Anche quaggiù ci si scandalizza se un palazzo storico è a rischio e si fanno battaglie in tribunale, sia detto in tutta onestà. Ma noi, in Italia, non capiamo che nel 2016 un dignitoso palazzo barocco nel centro di Torino è forse buono per un importante studio legale locale senza grosse ambizioni, non certo per una grande azienda multinazionale di servizi. Raccogliamo firme se, appena fuori dal centro storico, qualcuno osa costruire un metro in più della Mole Antonelliana, “perché cambia lo skyline”. Bene, teniamoci stretti la nostra disoccupazione a due cifre, celebriamo le olimpiadi di 10 anni fa riesumando un paio di tristi pali rossi e veniamo in vacanza a New York. “Si, vabbè, amò, ma Torino è mica Nu Iok. Quelli, i grattacieli, ce li hanno da sempre”. Solo a titolo d’informazione: quando Torino unificava l’Italia, la costruzione più alta di New York era una chiesa, Trinity Church, con i suoi 85 metri realizzati nel 1854. Nel 1720 la torre campanaria del duomo di Torino raggiungeva i 60 metri.
DA TRIBECA AL NUOVO WHITNEY MUSEUM
Stare al passo dei cantieri di New York è forse possibile per le patinate riviste d’architettura, un po’ meno per le guide turistiche da libreria. Qualche giorno fa ho visto con i miei occhi guide del 2016 che ancora segnalano il Whitney Museum nella sua vecchia sede di Madison Avenue e 75th Street. Chi arriverà in quell’angolo della Upper East Side prima del prossimo 18 marzo, rimarrà a fissare un cancello chiuso. Chi arriverà il 18 marzo, invece, nel vecchio Breuer Building troverà una nuova espansione del non troppo distante Metropolitan Museum. Fresco di nuovo logo, imbarazzante per bruttezza e banalità, il Met ha deciso di ampliare il suo programma d’arte contemporanea giusto dove una volta si trovava il Whitney Museum.
Proprio perché dedicato esclusivamente all’arte americana, consiglio sempre vivamente una visita del Whitney. Capisco che nei vostri cinque giorni in città, e con l’agenda satura, dovete almeno infilare il Metropolitan e il MoMA, per non dire del Guggenheim, dove sembra che la maggior parte dei visitatori entri solo per vedere la rampa. Sono davvero il primo a capirlo, perché vivendo qui ne approfitto, e li visito regolarmente. Dico solo che l’Europa abbonda di musei simili e Modigliani lo avete pure nel cortile di casa. Già che siete venuti in una città non proprio rappresentativa dell’America (se mai ne esista una), almeno regalatevi una rappresentazione di quello che questo Paese ha prodotto e sta producendo nel campo delle arti visive.
Ne hanno già parlato tutti e non solo le riviste d’arte e d’architettura. Quindi, non vi farò una recensione della nuova sede del Whitney Museum, progettata da Renzo Piano (l’uomo che ha tolto un metro al palazzo di Intesa San Paolo a Torino e che ha regalato alla banca, e ai sabaudi, una copia piccola del grattacielo del New York Times… poi dice che tutto non è collegato). Ma ci andiamo adesso, al Whitney Museum of American Art, partendo da Tribeca. Move on.
E VENNE LA STAZIONE CHE SI MANGIÒ IL PARCO CHE SI MANGIÒ LA PALUDE CHE QUALCUNO AL MERCATO COMPRÒ
Già sappiamo, giusto? TriBeCa è l’acronimo di “Triangle Below Canal Street“: perché l’area che sta sotto Canal Street, ed è compresa tra West Street, Broadway e Vesey Street, ha più o meno la forma di un triangolo.
Originariamente una palude, agli inizi dell’Ottocento l’attuale Tribeca era un’area residenziale bucolica e ruotava attorno ad un parco privato, il St. John’s Park. In quel punto, adesso, c’è lo sbocco dell’Holland Tunnel, che connette Manhattan al New Jersey. Probabile che ci passerete a fianco e non lo noterete. Nel 1866 quel parco viene venduto e al suo posto viene costruita una grande stazione per i treni merci. Il porto di New York era in piena espansione e la città era un terreno perfetto per sviluppare le attività industriali: quando le opzioni per muovere le merci erano ancora ridotte e gli operai raggiungevano prevalentemente a piedi il luogo di lavoro dai bassifondi in cui erano costretti a vivere, un’isola stretta dove produttori, fornitori e ricchi consumatori condividevano lo stesso spazio era un luogo ideale per un esempio vincente di capitalismo. L’area perde in fretta il suo carattere bucolico e si riempie di fabbriche. Prima dell’avvento dell’acciaio, era la ghisa che consentiva di costruire in altezza. Le fabbriche di New York erano alte cinque o sei piani, e la loro struttura in ghisa permetteva di avere ampi spazi dove lavorare senza troppe colonne attorno, in condizioni che comunque noi adesso considereremmo inumane. Girando per Tribeca è ancora di più per SoHo, il quartiere che si trova giusto a nord-est di Tribeca, vedremo parecchi esempi di questa storica architettura industriale, che ora invece ospita negozi alla moda, loft per multimilionari e ristoranti di tendenza. E sta diventando carissima anche per loro.
Un storia altalenante comune a parecchie aree di New York, quella di Tribeca e SoHo. Con lo sviluppo dei mezzi di trasporto, anche per le merci, e l’introduzione di nuovi sistemi produttivi che non richiedevano più la concentrazione di manodopera, fornitori e consumatori nello stesso luogo, la città negli anni ’60 perde progressivamente importanza e negli anni ’70 è in pieno declino economico. È il momento della bancarotta e della criminalità che dilaga non solo nei quartieri più poveri. Tribeca diventa così un’area d’attrazione per artisti alla ricerca di spazi a basso prezzo. Nuove normative urbanistiche e lo sviluppo del vicino distretto finanziario negli anni ’80 cambiano la traiettoria del quartiere, che a poco a poco diventa di nuovo una ricca area residenziale. L’attentato dell’11 Settembre 2001, con il crollo delle Torri Gemelle, manda in crisi Downtown Manhattan e i quartieri circostanti, come Tribeca. Nel 2002, con l’obiettivo di rivitalizzare Downtown, Robert De Niro fonda il “Tribeca Film Festival”. Nato con uno scopo assolutamente locale, il festival si è trasformato negli ultimi anni in un appuntamento di rilevanza internazionale.
COSA VEDERE A TRIBECA? ANCHE LA “GUIDA INUTILE” SERVE
Il Tribeca Film Festival è sicuramente un motivo per visitare il quartiere. Da quando vivo qui, quest’appuntamento primaverile cura la mia nostalgia da Torino Film Festival. L’edizione del 2016 si terrà dal 13 al 24 aprile. Consultate il sito ufficiale per il programma, le sale di proiezione e i biglietti. Sappiate solo che il festival si è allargato nelle zone vicine, alla disperata ricerca di sale cinematografiche più capienti. Ma l’ultimo fine settimana il festival si apre al quartiere di cui porta il nome, con una festa dedicata alle famiglie, lungo Greenwich Street e vie limitrofe. Consigliata per chi sarà in città con bambini. Lo scorso anno un artista dei castelli di sabbia incantava i ragazzini creando in pochi minuti perfette copie dei “Minions”.
I turisti arrivano a Tribeca non tanto per l’architettura o il festival cinematografico, ma perché vogliono vedere la stazione dei vigili del fuoco più famosa del Mondo, quella che era la sede dei Ghostbusters nell’omonimo film (“Hook & Ladder 8”, in N Moore Street all’angolo con Varick Street). Sappiate solo che è chiusa per restauri dal maggio dello scorso anno e lo sarà pure per i prossimi due. Un ponteggio coperto da telo traforato. Praticamente invisibile se non la sagoma. Tirate dritto.
Buttate invece il vostro occhio nel distretto storico. Ve ne potete fare un’idea anche solo facendo zig-zag tra le strade che tagliano Hudson Street a partire dall’angolo con Chambers Street e West Broadway. Soprattutto alla sinistra di Hudson Street troverete due rari “alley”, cioè piccoli vicoli chiusi tra due strade più grandi. Nel primo, Staple Street, troverete, un esempio di passerella coperta. Nel secondo, Collister Street, cercate il palazzo che fa angolo con Hubert Street in direzione nord. La facciata è proprio su Hubert. È visibile, sforzandosi un po’ e puntando lo sguardo in alto, una stemma con un cane. Bene. Quello è stato il primo simbolo dell’American Express, quando ancora era solo una compagnia di spedizioni.
Questi due vicoli ci dicono una cosa: anche a Manhattan si può trovare qualcosa di paragonabile al silenzio.
Adesso prendiamo Greenwich Street e andiamo verso nord. Ah, mi raccomando: si pronuncia “gren-itch”.
CANAL STREET È COOL
Nella nostra passeggiata lungo Greenwich Street per raggiungere il Meatpacking District e andare a vedere il Whitney Museum, arriviamo all’angolo con Canal Street. Si, la stessa della paccottiglia cinese per turisti, il posto da evitare se si vuole davvero vedere Chinatown. Ma qui ci troviamo ad ovest, a 200 metri dal fiume Hudson. E proprio verso l’Hudson dobbiamo andare. All’angolo con West Street di fronte a noi apparirà un edificio che, a prima vista, potrebbe tranquillamente ospitare un museo (N.B. l’immagine all’inizio di questo post). Una struttura quasi triangolare, con una facciata irregolare che può ricordare quella di un cristallo. Anche non capendo la sigla sulla cancellata, DSNY, basterà avvicinarsi un po’ per capire che non contiene opere d’arte. L’autore della vostra “Guida Inutile NEW YORK”, trovando il cancello aperto, non ha resistito e ha varcato la soglia per andare a curiosare. Suggerimento: voi non lo fate, è illegale. Allora, di che si tratta? Di un deposito per il sale che viene sparso lungo le strade durante una nevicata e quando arriva il gelo. Un enorme, gigantesco, deposito, la cui forma ricorda proprio i cristalli di quel sale. A Milano o a Fort Lauderdale sarebbe un museo per l’arte contemporanea. A Roma, con il Maxxi, Zaha Hadid non ha fatto di meglio. Qui in inverno i camion fanno la spola. Quando il DSNY (Dipartimento dei servizi di Igiene Ambientale) presentò il progetto, ci fu una rivolta da parte degli abitanti di Tribeca. In circa 400, terrorizzati dalla possibile perdita di valore delle loro case, tentarono di presentare un ricorso unendosi all’associazione di quartiere. Tra questi poveri disgraziati, anche: Michael Stipe, Lou Reed e James Gandolfini. Ora, se pensiamo alla fine che hanno fatto gli ultimi due, io fossi in Stipe mi metterei a cantare a bassa voce, magari fischiettando sotto la doccia. Il ricorso non è nemmeno riuscito ad arrivare in Tribunale e la città ha vinto. Nulla di irreparabile è successo ai patrimoni dei compagni di Tribeca, anzi. Tribeca continua ad essere il quartiere dove puoi andare a vivere quando hai fatto i tuoi primi 10 milioni di dollari. Evviva il condominio e la libertà.
IL WHITNEY MUSEUM HA SALVATO I MACELLAI
Lasciando Canal Street alle nostre spalle, e proseguendo verso nord lungo Greenwich Street, attraverseremo un’area di magazzini per grandi spedizionieri come UPS. Hudson Square è il nome di questo quartiere senza particolari attrazioni. Arrivati su Houston Street [N.B. ricordate che si pronuncia “how-ston”, au-ston], entreremo in quella parte del Greenwich Village che si chiama con originalità, vista la sua posizione ad ovest, West Village. Ritorneremo in zona, ve lo prometto, ma adesso tiriamo dritto. Ultimo chilometro e poco più. Arrivati all’angolo con Gansevoort Street, giriamo a sinistra. Siamo agli inizi del Meatpacking District.
Come già sapete, perché le vostre guide fanno il loro sporco mestiere, questo nome non è quasi più rappresentativo della zona. Più che macellai, nel quartiere ora ci sono negozi di moda e ristoranti.
Negli anni ’50, periodo del suo massimo sviluppo, l’industria della lavorazione delle carni contava in questo quartiere almeno 200 imprese, per un totale di oltre 3000 macellai. Col tempo, e come avvenuto in altre industrie newyorchesi, molte di queste imprese si sono trasferite, soprattutto nel New Jersey, dove si stava via via concentrando il grosso dell’attività portuale. Oggi le imprese del Meatpacking si contano letteralmente sulle dita di una mano e impiegano non più di duecento macellai. Per resistere alla concorrenza hanno imparato a diversificare. C’è chi è specializzato solo nella distribuzione ai grandi ristoranti, chi nelle carni bianche o in quella d’agnello. Tradizionalmente, dalla metà degli anni ’70, queste imprese erano raccolte in una cooperativa e quest’ultima stipulava i contratti di locazione per i suoi membri. Agli inizi degli anni 2000 la cooperativa ha firmato con la città un contratto con scadenza nel 2014, ma la più grande delle imprese, dopo poco tempo, ha abbandonato il distretto. Questa defezione ha liberato spazi e ha messo a serio rischio il futuro delle imprese superstiti. Quando il Whitney Museum ha iniziato a Downtown la ricerca di un terreno dove poter costruire una nuova e più grande sede, si è presentata l’opportunità del Meatpacking District: le imprese del distretto avevano gli spazi giusti, proprio ai margini di quel formidabile collettore di turisti che è la High Line. Questa situazione ha consentito: alle imprese di stipulare un nuovo e più lungo contratto di locazione con la città fino al 2035; e al Whitney Museum di portare a termine una grande operazione immobiliare e culturale. In una città dove la resistenza al cambiamento tocca tutti i quartieri, e dove il lamento per il tempo andato è una caratteristica innata del vero newyorchese, il Whitney Museum ha anche segnato punti pesanti nella sua agenda di pubbliche relazioni: ha evitato un conflitto con i sindacati e ha assunto quasi un ruolo salvifico per la sopravvivenza del distretto. Due a zero, palla al centro.
Non fatevi ingannare dalle apparenze. Il deposito del sale ha un aspetto più armonioso del nuovo Whitney. Detto in soldoni: il nuovo Whitney non è bello a vedersi, non è uno di quegli esempi di architettura che si ricordano, non è il Guggenheim di Wright. Ma Renzo Piano, come riconosciuto da tutti quaggiù, ha realizzato un’opera imbattibile per funzionalità. Per apprezzare appieno il nuovo Whitney Museum, come qualunque altro museo, bisogna entrarci dentro. Qui, luce e spazi esaltano le collezioni e consentono installazioni di grandi dimensioni.
Nessuna recensione artistica, però, perché vi dovreste accontentare di un sfilza di mi piace / non mi piace. Hanno vinto i primi nelle due volte che ci sono stato.
Chiudo però con un’altra valida ragione per andare a visitarlo. Allontanandoci dall’isola, abbiamo già esplorato alcuni luoghi dai quali si può godere una prospettiva un po’ meno turistica e meno “piatta” di Manhattan, perfetti per scattare fotografie da invidia. Senza salire sull’Empire State Building, il Top Of The Rock o il nuovo osservatorio al World Trade Center, possiamo apprezzare lo skyline cittadino standoci dentro. Le terrazze del Whitney ci offrono una vista quasi a 360º. E visitando il museo il venerdì sera, dalle 19 alle 22, tutto questo ci costerà solo la donazione che vorremo lasciare. Mi raccomando: non facciamoci riconoscere.
2 commenti
alessandra donato
Caro Denis, il tuo fluente scrivere tiene incollati al racconto che fai di questa città. Come un moderno filosofo, ci guidi nella comprensione della vita sociale newyorkese. Divertente, ironica, declinata alla nostra italica sensibilità, tutt’altro che inutile la tua guida…futuro Tocqueville.
Denis Spedalieri
Ehi, quanti complimenti! Grazie davvero, Alessandra. Continua a seguire la “Guida Inutile”, ché qui siamo appena agli inizi. Allargheremo lo sguardo anche al resto dell’America, con un progetto parallelo. Insomma, come dicono qui: stay tuned.