Gente di New York #1 – Domenico l’arrotino
Affilare la lama di un coltello non è una di quelle cose che ti insegnano a Wall Street. Ma forse lì si impara a guardare oltre le apparenze, e a capire dove gira davvero il denaro. L’incredibile storia di Mr. Del Re, uno degli ultimi arrotini di New York.
L’autobus si ferma a lato del piccolo furgone rosso. Adesso la strada è davvero bloccata. L’autista del B61 fa cenni con la mano all’uomo del furgone. Per un attimo penso che sia arrabbiata perché il furgone è in doppia fila e lei non riesce a passare. Lui scende, sorride e la raggiunge a passi lenti. Ora anche l’autista ride. “Finalmente ti ho ritrovato! Ti ho cercato dappertutto e adesso che ti ho visto non potevo non fermarmi!!” Si salutano, lei chiude le porte dell’autobus e riparte. Tutto così veloce che per le auto in coda non c’è stato nemmeno il tempo di mettere mano al clacson, anche avessero voluto. Se dopo mezz’ora a parlare con lui ne avevo avuto il sospetto, adesso non c’erano più dubbi: l’uomo del furgone rosso era un vero personaggio.
Pomeriggio d’inizio primavera, Brooklyn. 15th Street, tra 8th Avenue e Prospect Park West. Mi sarei fermato se non fosse stato per quella ragazza ferma in mezzo al marciapiede? Forse no. Camminavo quasi a testa bassa ma a passo veloce, preso nei miei pensieri, lei stava facendo delle foto. Mi sono fermato, giusto perché ero curioso. Un uomo stava in piedi dentro il suo furgone e non sembrava nemmeno così contento d’essere fotografato. Sulla fiancata del furgone c’era scritto “GRINDING”. Mai visto uno nei miei tre anni quaggiù, era il mio primo arrotino a New York.
Quando la ragazza del telefono si allontana, mi avvicino all’uomo. Gli dico che nel mio Paese, in Italia, c’è ancora qualcuno che fa quel mestiere, ma non immaginavo che a New York fosse lo stesso. Mi risponde in italiano: “Italia? Dove?”. Se avessi fatto più attenzione alla scritta sulla fiancata del furgone avrei visto il suo cognome, Del Re, e avrei almeno intuito le origini italiane. Dopo avergli risposto che vengo da Torino, e che vivo qui a Brooklyn, lui mi farfuglia una cosa incomprensibile. Lo guardo perplesso. “Ma non mi hai detto che sei italiano? E allora non capisci?”. Il rumore delle macchine attorno a noi mi sembra la scusa più plausibile per chiedergli di ripetere. Non va meglio la seconda volta. Ma una cosa ora è chiara: mi sta prendendo per i fondelli con una supercazzola degna del miglior Tognazzi. Touché. Ci sono cascato come un pollo.
Qui a New York è conosciuto come Dominic Del Re. Ma al momento delle presentazioni, lui ci tiene a farmi capire che non è un italoamericano ma proprio un italiano. “Piacere, Domenico”.
Vuole sapere perché sono venuto via dall’Italia. “Fate tutti lo stesso errore! Venite qui, in America. Ma vi dimenticate della qualità della vita…”. Domenico Del Re non è il primo da cui sento queste parole. In genere è un commento che ti fanno gli italiani più anziani, quelli che da tempo non mettono piede in Italia ma hanno in testa un’immagine del loro paese. Una fotografia sbiadita ma in cui ci sono famiglia e affetti sempre più lontani. Con quelle presenze ingombranti, nessuno ha il diritto di criticare la fotografia. Tra le nuove generazioni di immigrati, quelli come me, tanto per capirci, circola una fotografia diversa, almeno qui a New York. Tra i nuovissimi arrivati, quelli che hanno messo piede in città da poche settimane o mesi, c’è un misto di idealizzazione e di sorpresa per un modo di vivere ed un ambiente che non sono sempre paragonabili a quelli di una città italiana. Una specie di infatuazione da grattacielo e luci della città, un po’ come per gli immigrati a Milano negli anni ’60 del boom economico. Tra chi è già qui da qualche anno, e parlo per esperienza diretta, quell’infatuazione iniziale sparisce e rimane soprattutto il pragmatismo. Allora spiego a Domenico che per una famiglia come la mia, qualità della vita significa, certo, tutto quello che puoi trovare anche in Italia — giardini, parchi, scuole, librerie, supermercati, ristoranti, musei, cinema, uffici postali — ma quello che conta è come tutto questo si traduce concretamente nella vita di un quartiere e della città. Gli dico che per una famiglia media la vita è più facile qui in America che in Italia, l’ho visto in tutte le città che ho visitato qui senza occhio da turista. New York è più complessa, vero. Ma quando sento chi si lamenta del tempo trascorso nel traffico o aspettando la metropolitana sovraffollata, mi chiedo cosa proverebbe a lavorare per qualche giorno in città italiane ben più piccole, come Roma, Milano o Napoli. Non so se sto convincendo Domenico. Ma quando gli dico che prima ho vissuto a Bay Ridge, sempre qui a Brooklyn, e che quando ho tempo vado a fare la spesa da Coluccio a Bensonhurst, vedo nei suoi occhi che i nostri mondi si avvicinano.
Domenico del Re non è un vecchio italiano. Ha 60 anni ed è arrivato a New York dalla Puglia quando ne aveva già 15. Il suo furgone è spartano, senza fronzoli, una piccola officina ambulante, con lo stretto necessario per eseguire a regola d’arte il suo lavoro. E lui, a ragione, considera il suo lavoro un’arte. Mentre stiamo parlando arriva una cliente. Srotola un panno dentro il quale sono avvolti alcuni lunghi coltelli da cucina e glieli porge. Domenico si mette un fazzoletto davanti alla bocca, fermandolo dietro la nuca come si faceva da bambini giocando ai cowboy. Poi prende uno dei coltelli e inizia ad affilarlo. Ho capito che non gli piace essere fotografato. Quindi approfitto di questo momento per rubargli un’immagine mentre è di spalle. Quando ha finito, mi fa vedere il coltello. “È o non è un’opera d’arte?”. Si, e basta una manciata di dollari, cosa che a New York non ti paga a volte nemmeno il caffè.
Gli chiedo, retoricamente, come sia ancora possibile campare facendo l’arrotino, quando sembra che nessuno ricicli più nulla e tutti si è votati all’usa e getta. Non penso solo ai coltelli e alle forbici, ma anche ai calzolai o a tutti quegli artigiani che non rientrano nelle categorie alla moda. Sensibilità, la mia, che nasce dall’aver avuto un papà materassaio. Fin da piccolo, accompagnandolo nel suo lavoro, sono entrato in centinaia di camere da letto. Ho visto gente ricchissima dormire su giacigli degni di una topaia. Preferivano pagare una miseria piuttosto che rifare un materasso di lana ogni 4 o 5 anni. Entrare nelle camere da letto insegna sempre a fiutare la fuffa, sempre. Adesso voglio solo capire come riesce a vivere un artigiano vero nell’epoca degli artigiani fuffa.
“Ti sbagli. E ti spiego perché”, inizia Domenico. “La gente adesso è presa dalla mania per cucinare. Li vedi tutti quei programmi tv, Food Network e così via? Tutti si sentono grandi cuochi. E spendono cifre per la loro attrezzatura in cucina”. Non ci avevo mai pensato. Mi giro e guardo le case attorno a noi con occhi diversi. Mi torna in mente una trasmissione su un canale televisivo dedicato interamente al cibo. Lui cuoco, italiano, lei presentatrice e americana. Il tutto ambientato nella Brooklyn del cavolo nero e della maionese artigianale. Chiamalo rinascimento alimentare o fuffa, la sostanza è che fa girare denaro. Dando nuova vita ad attività che sembravano estinte, come quella dell’arrotino.
Quando passi la tua giornata letteralmente per dieci ore sulla strada, e hai bisogno che i clienti vengano da te, è normale essere scissi tra diffidenza e cordialità. Scopro che non è la prima volta che qualcuno parla o scrive di Domenico. 20 anni fa lo ha fatto pure il New York Times e lui mi racconta che c’è sempre qualcuno che, prima o poi, gli chiede d’andare in televisione, anche solo per un servizio sul telegiornale locale. Non gli interessa, ha detto no diverse volte. Ci vuole tempo per farlo aprire. Mando un messaggio per dire che arriverò tardi.
Sembra quasi un destino che un uomo nato a Mola adesso si trovi a lavorare proprio davanti a una mola. Ma la vita di Mr. Del Re riserva sorprese. “Ho studiato economia e commercio”, mi dice mentre lo fisso a bocca aperta. Si è laureato alla Long Island University. Prima di fare l’arrotino lavorava a Wall Street, era un “commodity broker”, cioè commerciava prodotti grezzi o materie prime. Per essere specifici, Domenico Del Re trattava contratti futures sul cacao. “Poi è arrivato il 1987, il crollo di Wall Street”. In un fine settimana d’ottobre la borsa di New York perde quasi un terzo del suo valore. Il crash trascina con se anche la società per cui Del Re lavorava. È in quel momento che si profila per lui la possibilità di rilevare un piccolo furgone da arrotino, usato da uno zio da poco in pensione in Canada. Occasione presa al volo e inizio di una nuova vita.
Domenico Del Re ha due figli. “Una volta mi chiedevano: papà, perché non apri un ristorante? Potevo mettermi a fare la pizza. Sai che faccio una pizza spettacolare anche senza avere un forno? E lo sai come faccio?”. Mi torna in mente un video che ho visto qualche mese fa sul sito del New York Times. Così, senza esitare, gli rispondo che la fa sulla griglia. “Esatto, la faccio sulla griglia del barbecue”. I costi di un ristorante non sono quelli di un furgone, ma gli chiedo lo stesso perché allora non abbia aperto un ristorante, come suggerito dai suoi figli. “Perché so quello che c’è dietro. So da dove arriva il denaro. Li vedi tutti questi nuovi ristoranti a Brooklyn? Cosa pensi, eh?”. Penso.
Penso che la New York che ha vissuto Domenico, nei suoi anni da ragazzo e poi da giovane professionista, fosse una città dove bastava essere italiani per far scattare l’associazione con la mafia. Penso che i primi a pagare quello stigma fossero gli stessi che vivevano nella paura della violenza mafiosa. Colpiti due volte, dal pregiudizio e dal terrore. Penso che quegli anni, adesso, sembrano proprio lontani: i segni di quella violenza non ci sono più, se non nelle cronache dei giornali dell’epoca o nei racconti di qualche pentito che ha cambiato identità ed è arrivato in libreria. Ma quando batti la città in lungo e in largo per trent’anni, difficile che tu non abbia occhi per capire. Ecco cosa penso.
Domenico non ha zone fisse, gira in continuazione, tra Manhattan e Brooklyn. È rimasto uno dei pochissimi a fare ancora questo mestiere in tutta la grande area di New York. Se qualcuno prova a chiedergli un appuntamento o un numero di telefono, casca nel vuoto. Incontrarlo è solo una questione legata al caso. Buona fortuna.
Si sta facendo tardi. Adesso io e Domenico Del Re potremmo parlare per ore. Io potrei imparare nuovi posti dove acquistare la miglior verdura a Brooklyn o scoprire nuovi segreti sul sistema degli approvvigionamenti dei ristoranti della città. Invece ci salutiamo, pugno contro pugno. Gli dico che lo cercherò nel mio girovagare e che prima o poi ci rincontreremo di sicuro. Mi allontano. Quando arrivo all’incrocio con la strada, sento squillare una campanella. È Mr. Del Re. No, non sta chiamando clienti. È l’ultimo saluto che mi regala prima di proseguire il suo viaggio.