Jehoshaphat Judah
Persone

Gente di New York #10 – Jehoshaphat, l’autodidatta che ripara e suona pianoforti

Tutto può tornare a nuova vita: basta crederci.


In tanti si fermano sul marciapiede opposto per filmarlo. Alcuni attraversano la strada per lasciare un dollaro di mancia. Pochi altri lo avvicinano per ringraziarlo della sua musica e per scambiare qualche parola. Immagino d’essere comunque il più fortunato di tutti. “Hai un po’ di tempo?”,  mi domanda. “Allora vieni con me, ti offro un caffè”.

Un’ora a chiacchierare con Jehoshaphat Judah ti rammenta, se mai ve ne fosse ancora bisogno, quanto sia inutile forzare le persone dentro categorie precostituite. I nostri stessi nomi sono solo delle convenzioni. E non mi stupirei se il suo fosse inventato di sana pianta. Mentre suonava, ho fatto una ricerca veloce col telefono. Jehoshaphat (Giosafat) era il nome del quarto sovrano del Regno di Judah (Giuda) a Gerusalemme tra gli anni 870 e 845 a.C. Oggi ha un indirizzo Gmail, uno sparuto canale YouTube e vive a New York.

Jehoshaphat Judah suona il piano lungo Broadway
Quando l’aria diventa più fresca, Jehoshaphat suona il pianoforte con i suoi guanti da lavoro.

Nel bicchiere di Jehoshaphat c’è più panna liquida che caffè. Il mio lo ordino semplicemente nero, senza zucchero. Lui avrebbe voluto portarmi in un bar elegante, io l’ho convinto a fermarci alla bodega all’angolo. Ero stato tra quelli a lasciare un dollaro nel suo barattolo delle mance, adesso è lui a voler pagare per me a tutti i costi.

“Una volta ho incontrato Jennifer Aniston a Broadway. Le ho parlato, le ho detto che la guardavo sempre quando faceva “Friends”. Peccato solo che non sia riuscito a fare una foto con lei. Sono sicuro che mia sorella non mi crederebbe”. Jehoshaphat è di nuovo su Broadway. Ma non vicino a Times Square, dove racconta d’aver incontrato la Rachel della famosissima serie televisiva (che proprio questo ottobre, tra l’altro, celebra i 25 anni dalla messa in onda del primo episodio). Bensì all’angolo con 20th Street, nel Flatiron District che prende il nome dall’omonimo palazzo a forma di ferro da stiro.

Jehoshaphat
Jehoshaphat si ferma a parlare con chiunque, anche se non sei Jennifer Aniston.

Jehoshaphat ha parcheggiato il suo camioncino al centro di Broadway, dove le strisce per la sosta separano la pista ciclabile dalla corsia per le auto. Oltre a una testiera da letto in metallo, e altre cianfrusaglie che raccoglie in giro per la città, sul cassone ci sono due vecchi pianoforti verticali. “Li ho presi gratis su Craiglist”, mi spiega. “Da febbraio ho iniziato a ripararli e a suonarli”. E tutto questo avviene rigorosamente per strada. Quando attacca con il suo pezzo preferito, le persone si fermano ad ascoltarlo. Provo a spostarmi un po’, per evitare di ritrovarmi in decine di video postati chissà dove. Serve a poco, perché Jehoshaphat ha altro in mente.

“Vieni, ti insegno a pilotare insieme. Ovviamente, se ci sfracelliamo al suolo è colpa tua!”, ride il mio improvvisato insegnante di pianoforte. Pur vivendo in una famiglia dove la musica è onnipresente — e non solo perché mia moglie per anni ha composto brani jazz e lavorato con una casa editrice musicale — sono l’ultima delle persone a poter giudicare le abilità di Jehoshaphat come musicista autodidatta. Di sicuro, la passione di quest’uomo è contagiosa.

Jehoshaphat Judah mostra l'interno di un pianoforte che sta riparando
Forse ha ragione Jehoshaphat: che te ne fai di tutti quei tasti?

“Questa è la G e questa la D”, mi spiega Jehoshaphat indicandomi i tasti che io dovrei suonare mentre lui si incarica del resto. Sono certo che le note, in italiano, hanno tutt’altro nome. La buonanima di Guido d’Arezzo non me ne vorrà se uso pure io la notazione letterale anglosassone. “Per ora vai solo con la D e seguimi”. Quando inizia a suonare, si ripete il solito rituale di passanti incuriositi e con i loro telefonini pronti a riprendere la performance, senza curarsi della bravura dei musicisti. Posso tranquillamente buttarmi anche sulla G. 

Jehoshaphat mi mostra l’interno del pianoforte che stiamo usando noi. “Quando ero un ragazzino la mia famiglia aveva soldi per farmi prendere lezioni di piano. Ma io ero più affascinato da chi li riparava”. In queste settimane ha cambiato i martelletti usurati e ora prova a eliminare l’umidità in eccesso usando della carta vetrata. Gli dico che sto tranquillamente fingendo di capirlo e che sto pure fingendo di credere che lui abbia iniziato a restaurare e suonare pianoforti solo a febbraio di quest’anno. “No, credimi! Ho davvero iniziato a febbraio. Tutti possono farlo”. Poco importa che sia vero o no. Sta venendo voglia pure a me.

“Vieni, ti faccio vedere un’altra cosa”, mi dice con una certa eccitazione. Prima di allontanarci di nuovo, gli suggerisco però di non lasciare il barattolo  delle mance in bella vista sul retro del camioncino. È vero che è tutto sgangherato, che il parabrezza è ammaccato e che sulle prese d’aria del cofano anteriore sono state abbandonate delle vecchie pile probabilmente scariche. Ma gli  esseri umani, quando nessuno li vede, sono inaffidabili. “Hai ragione. E guarda qui!”. Nel barattolo ci sono almeno sedici dollari ed il primo ad essere sorpreso è proprio lui.

Perché imparare a riparare solo pianoforti quando puoi rimettere in mare una barca senza scafo?

A due isolati dal camioncino c’è il resto del tesoro di Jehoshaphat. “Che ne dici? Questa è la mia nuova barca”. In effetti, la barca ha anche un nome, Sea Fly. È appoggiata su un carrello parcheggiato pure lui su Broadway. Il motore è presente. Ma oltre la poppa, rimane poco altro dello scafo. “La rimetterò in acqua”, dice Jehoshaphat. E io inizio a non avere più dubbi su quest’uomo. “Oggi mi hanno regalato pure queste due portiere. Sono più nuove di quelle del mio camioncino!”. Potrebbe aggiustare qualunque cosa.

“Le cambierò nome. Hai presente Gilligan’s Island?”. Mi spiega che era una vecchia serie comica televisiva, con sette naufraghi su un’isola sperduta. Sul momento non riesco a ricordarla. Mentre parliamo, si avvicina un tizio che arriva da un negozio vicino. “Ehi! Ma è tua questa barca? Oh, è tutta la mattinata che la gente si ferma a fotografarla, manco fosse un monumento!”. Spiega a Jehoshaphat che c’è stato pure chi gli ha chiesto come avesse fatto a portare a questa barca da Staten Island. Non smette di parlare e, da vero newyorchese, inizia pure una telefonata nello stesso momento.

Io e Jehoshaphat torniamo al camioncino coi pianoforti. Arriva quello che chiaramente è un giovane “influencer” alla ricerca di una foto a effetto per il suo Instagram. Viaggia, come tutti loro, con tanto di amico che ha l’unico compito di fotografarlo e farlo sentire importante. Rivolge a malapena la parola a Jehoshaphat, giusto per chiedergli se può fare una foto col camioncino. Si aggiusta il berretto rosso, si mette in posa, l’amico scatta e se ne vanno, come esploratori col loro trofeo sottratto ai selvaggi. 

“Li vedi questi tasti? Non sono così umidi. Ma per quello che suono io, in verità, non mi servono”. E inizia a sconnettere alcuni pezzi della tastiera. Dopo un po’, ci ripensa e li rimette al loro posto. “Senti. Ma tu credi che potrei mettere qui in offerta dei cd con la mia musica a dieci dollari?”.

Perché no, Jehoshaphat Judah. Con te, questo e altro è possibile.

Per suonare a Broadway ti basta un pianoforte su un camioncino.

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