Quella rotta (in)concludente tra Madrid e New York
Guida Inutile MADRID – 48 ore nella Capitale spagnola, senza nemmeno sognarsi di mettere piede al Prado
La folla davanti all’immensa tela è decisamente numerosa e pure rispettosa delle regole: ammira il grande quadro senza fotografarlo. Ma qualcuno, proprio non ci riesce a stare nei ranghi. “No pictures, no pictures!”, si affretta ad ammonire una delle assistenti di sala. L’effetto deterrente del suo richiamo è opinabile.
Lavoro infame, quello degli assistenti di sala. In piedi quasi tutto il tempo, spesso davanti ad opere d’arte incomprensibili a loro come ai visitatori. Delle guardie senza potere, questi impiegati, se non quello di sgridarti quando oltrepassi la distanza di sicurezza visibile o invisibile che ti separa dal capolavoro. Hanno tutto la mia stima. Ma io, la foto alla Guernica di Picasso, la faccio lo stesso. Non sono certo arrivato sin quaggiù per tornarmene a casa senza souvenir.
Madrid, Museo Reina Sofia. Ma perché mai New York, che pure conserva il quadro più famoso di Van Gogh, non può avere anche quello più famoso di Picasso? Avevo giusto bisogno d’una scusa per venire a Madrid.
MADRID BATTE MIAMI (SOLO PINEROLO È PIÙ VICINA A TORINO)
La Guida Inutile New York fa uno sforzo per essere ancora più inutile. Se già siete infastiditi perché, una volta finiti per sbaglio quassù, poi non trovate l’imperdibile lista delle 100 cose da vedere a New York, ma solo storie varie, adesso vi offro una ragione in più: con questo unico post mi lancio senza pudore nella stesura dell’inconsistente e presuntuosa Guida Inutile Madrid. Perché “inutile” è il nuovo “mai più senza”.
Ovviamente, non dovrei nemmeno dirvelo, se volete una buona guida di Madrid, lasciate perdere tutto quello che potrete trovare a gratis in rete. Fate come il sottoscritto: prendete una quindicina di euro e compratevi una Lonely Planet di quelle ultra-piccole e tascabili. Qui sopra non facciamo le cose sul serio. Si gioca.
Il post avrebbe potuto tranquillamente parlare di Miami. E non perché ragioni familiari l’abbiano resa, insieme a Brooklyn e Torino, uno dei luoghi in cui ormai ruota la mia esistenza. Ma perché i miei due compagni di ventura in terra di Spagna l’avevano scelta per un fine settimana da incorniciare: quello dei 12 mesi in cui tutti e tre, prima o poi, ci saremmo trovati a tagliare il traguardo del mezzo secolo.
Una volta realizzato che raggiungere la Florida da Torino avrebbe ridotto il loro fine settimana da incorniciare alla sola cornice, C e D mi hanno proposto Madrid. Idea sposata al volo. Come se viaggiare da New York a Madrid, tra spostamenti in metro, check-in e tempi d’attesa negli aeroporti non richiedesse almeno 14 ore per senso di marcia. “Tranquilli”, avevo detto. “Facciamo ‘na cosa a metà strada. E poi pure voi avete un volo diretto da Torino. Che vogliamo di più?”. Elon Musk, salvami tu.
MADRID-BARAJAS ALFONSO SUÁREZ BATTE NEW YORK-JFK (E CI VUOLE POCO)
Quando l’ex Vice-Presidente Americano Joe Biden definì New York-La Guardia un aeroporto da nazione del Terzo Mondo, allo scalo di JFK devono aver tirato un sospiro di sollievo. Quando arrivi all’aeroporto di Madrid Barajas, capisci perché.
Abitando a New York, lo sai che le infrastrutture in città fanno mediamente cagare. E sai pure che, nonostante sia una metropoli con una ricchezza spaventosa, non ha però i privilegi delle Capitali come Londra, e nemmeno quelli di un governo autoritario che la metta al centro delle sue ambizioni planetarie, come avviene a Shangai. Per questa ragione, New York non riuscirà mai a costringere i suoi abitanti a pagare più tasse per avere metropolitane veloci e aeroporti sfavillanti.
Madrid-Barajas Alfonso Suárez ti ricorda che un altro mondo è possibile, oltre quello dei topi che mangiano la pizza nelle stazioni della metro e dei Terminal che si allagano.
Innanzitutto, a Madrid c’hanno lo spazio vitale, loro. Da a una pista all’altra di Barajas ci sono 9 chilometri, mentre JFK deve accontentarsi di poco più di 5, schiacciato com’è dal resto del Queens e dall’acqua. Poi a Barajas c’è un minimo di eleganza e coerenza stilistica tra i cinque terminal, mentre i sei di JFK sono un’accozzaglia di forme e dimensioni, perché lasciati da sempre alla bontà delle compagnie aeree, chiamate a progettarsi i terminal e poi a gestirseli in proprio. Non contenti, i sei terminal di JFK non hanno nemmeno una numerazione progressiva: si va dal T1 al T8, ma senza “T3” e “T6”, demoliti negli anni e mai sostituiti.
Ai gate del T4 di Barajas, puoi trovare non solo le poltrone, ma anche qualche manciata di chaise lounge. Molto utili per chiudere gli occhi e perdere il volo di coincidenza. Al Terminal 4 di JFK abbiamo invece ben quattro cappelle, per pregare tutti gli Dei De Lo Mondo che il nostro volo non abbia le solite due ore di ritardo in partenza.
ARRIVARE IN CENTRO A MADRID
Per andare in città, JFK vi regala la prima esperienza con la leggendaria gentilezza dei tassisti newyorchesi (si, è sarcasmo). Se volete spendere meno di un quinto di quanto dovreste lasciare al tassista, potete invece buttarvi sull’AirTrain, che vi connetterà con le stazioni della metro e con la Long Island Rail Road per andare a Penn Station. Non cercate un collegamento diretto via treno con Manhattan, perché non esiste. Storia lunga e penosa, ve la risparmio.
Madrid Barajas è invece collegato non solo con la metro, ma anche con un treno che arriva fino alla stazione principale di Atocha. Insomma, Madrid Caput Mundi.
Nonostante la mia attuale infatuazione per Madrid, al Barajas Adolfo Suarez non c’è solo oro. Per spostarti da un Terminal all’altro devi prendere un autobus. Uniche eccezioni, il T4 e il suo satellite T4S, collegati da un treno automatico. La metro per il centro città si può prendere al T4 e ai T1-T2-T3. Ma il treno della Renfe per la Stazione Atocha è solo al T4.
SCEGLI I COMPAGNI DI VIAGGIO GIUSTI E POI LASCIA CHE LORO SCELGANO PER TE
L’amico C è uno che ha capito tanti anni fa come godersi la vita. Quando lui e suo marito se ne vanno in giro per il Mondo, noi sbaviamo dietro le loro avventure su Instagram, che siano nelle Langhe o in Malesia. Raro che scelgano un albergo senza una piscina. Piccoli hotel boutique o alberghi storici. Zero vie di mezzo.
Così, quando il progetto del viaggio a Madrid iniziava a prendere forma, io e D abbiamo lasciato a C l’onere di scegliere il nostro albergo. Dissimulando l’ansia da prestazione della mia carta di credito, e con sprezzo del pericolo, io avevo pure rilanciato. Avevo detto a C che il budget per due notti poteva anche occupare le dita di due mani. Come se tra decine e centinaia d’euro non vi fosse alcuna differenza.
Per nostra fortuna, C non ha ascoltato. Ha prenotato tre singole all’NH Madrid Nacional, il più ragionevole degli NH. Io ho salvato la faccia e C non ha dovuto abbassare proprio al pavimento l’asticella dei suoi standard. Quanto a D, lui non ha fatto piega.
IL MIGLIOR ALBERGO DI MADRID
Lo so che non dovrei spargere troppo la voce, ma l’NH Madrid Nacional è il segreto meglio custodito della città. In tre quarti d’ora di treno Renfe, dal T4 di Barajas Adolfo Suarez si arriva alla Stazione Atocha. Usciti dalla stazione, l’albergo si trova a cinque minuti a piedi, giusto perché non volete farvi arrotare alla rotonda. L’indirizzo è Paseo del Prado 48.
Il prezzo medio per una doppia o una singola si aggira attorno ai 150 euro per notte. Vista la nostra età, la singola s’imponeva sovrana. Ma due amiche possono tranquillamente condividere una camera doppia. Due amici? Dipende dalla tolleranza verso le sonorità generate dalle ostruzioni respiratorie.
Le nostre camere si affacciavano giusto su Paseo del Prado, davanti al verde del Real Jardin Botánico. Se siete fortunati come C (oppure se alla reception fate l’occhiolino), magari vi capita la camera con tanto di terrazzo e tavolino dove sorseggiare un bicchiere di vino dopo la doccia. La doccia è compresa nel prezzo della camera, il vino è vicino al frigo bar ma non è gentilmente offerto.
Se pensate di non trascorrere troppo tempo in albergo, soprattutto al mattino, quando avrete piani bellicosi per la conquista del Palazzo Reale, ripensateci. All’NH Madrid Nacional la colazione è sontuosa (a meno che non siate abituati a trascorrere i vostri fine settimana all’Hassler, la troverete sontuosa pure voi). In un grande salone che sarebbe luminosissimo anche senza pareti bianche, potete fare la traversata dal salato al dolce, senza soluzione di continuità. Non solo vera spremuta di vere arance, ma quantità industriali di Jamón Iberico o Serrano (non sono in grado di riconoscere la differenza). Lasciate perdere il Prado, e godetevi un paio di caffè in più.
I MUSEI DI MADRID CHE NON POTETE NON PERDERE (UH??)
Chi sono io per dirvi di non andare al Prado? Sono la vostra Guida Inutile New York in visita per 48 ore a Madrid, ecco chi sono. Quindi? Fiducia cieca iniziale e successivo pentimento a portata di mano. «Amò, ma perché ci siamo fidati di ‘sta guida che non è manco di Madrid e c’ha fatto perdere la Maya Ignuda??» Desnuda, mio caro, desnuda. E poi è Maja…
A meno che non siate dei fanatici dell’arte, e vogliate approfondire i vostri studi sui pittori spagnoli dei primi del ‘600, siete davvero arrivati a Madrid per chiudervi in un museo? Vi bastano dieci minuti in questa città per capire che qui la gente passa il tempo per strada. Mica solo i turisti, ma orde di madrileni. E voi volete fare i bastian contrari? Mah, contenti voi…
Anche C, refrattario assai al tempo speso per fissare quadri incomprensibili, ha invece sposato l’idea d’andare a vedere almeno la Guernica di Picasso. E così, eccoci al Museo Reina Sofia. Tra i 10 euro meglio spesi di sempre.
Se siete interessati alla storia del quadro, al ruolo della Luftwaffe nazista e dell’Aviazione Legionaria fascista nel bombardamento della città basca, vi lascio alle vostre ricerche. Poco importa che, dopo decenni, ancora si discuta del numero effettivo delle vittime. Che siano davvero state oltre 1600, o poco meno di un decimo di quella cifra, non cambia la sostanza dei fatti. Il bombardamento di Guernica coinvolse civili innocenti. E il quadro di Picasso è servito negli anni non tanto e non solo a ricordare gli orrori della Guerra Civile spagnola, quanto la realtà tragica di tutte le guerre.
Quel che non avevo mai capito è che la Guernica di Picasso è davvero grande. Con la sua lunghezza di quasi 8 metri, e una larghezza che va oltre i 3 e mezzo, occuperebbe l’intero muro di un museo anche a non volere.
Prima di lasciare la sala, e far finta d’essere interessati a Miró e compagni, date un’occhiata alle fotografie che mostrano i lavori di preparazione ed esecuzione del dipinto. Impressionante.
LA PIAZZA DELLE PIAZZE DI MADRID: PLAZA MAYOR
“Non facevamo prima a vederci a Bologna?”, dico ai miei compari. La battuta mi costa uno sguardo di reprimenda da parte di C, il quale non apprezza particolarmente la città felsinea. Ma al nostro ingresso in Plaza Mayor, non riesco a trattenermi. E il guaio non è tanto che la battuta sia stupida e non faccia nemmeno ridere. Quanto che sei anni di vita in America mi hanno lasciato una certa indifferenza per le piazze europee. È un sentimento personalissimo, che non appartiene nemmeno di striscio alla stragrande maggioranza degli americani, i quali invece venerano qualunque espressione architettonica della Vecchia Europa.
Io, invece, sono un immigrato dall’Europa, dove ho vissuto per oltre 40 anni. E adesso, salvo rare eccezioni, le piazze europee inizio a trovarle tutte uguali (boom!). Mi sembrano solo l’equivalente medievale dei contemporanei centri commerciali (boom! boom!!). Potrei atterrare a Voghera, Ascoli o Madrid. Vista una qualunque piazza principale, viste tutte (boom! boom!! boom!!!). Risparmiatevi l’orrore: io mi tengo i miei giudizi e pregiudizi, e voi potete tranquillamente tenervi i vostri.
Una volta deciso come affrontare la pratica museale (che potrebbe essere confinata al mattino del vostro secondo giorno in città), la prima cosa da fare a Madrid è proprio quella d’andare in Plaza Mayor. Perché vi basterà un selfie laggiù, e parenti e conoscenti tutti sapranno che voi siete stati a Madrid per davvero. A quel punto, l’intera pratica Madrid potrebbe ritenersi conclusa, e voi potreste affittare una macchina per andare a Valencia. Quando l’ho proposto ai miei compagni di viaggio, il no è arrivato solo dopo qualche attimo d’esitazione.
Se le geometrie delle piazza, con gli affreschi di Proserpina, Bacco e Cupido dipinti negli anni ‘90 sulla facciata della Casa de la Panaderia, non fossero già una ragione sufficiente per arrivare in Plaza Mayor, sappiate che un incontro con l’Uomo Ragno Imbolsito varrà il prezzo del vostro viaggio. Mentre nella Times Square di New York bisogna avere il fisico scolpito per strimpellare la chitarra seminudi o andarsene in giro con le tette tatuate a stelle e strisce, a Madrid mi sembra ci sia più tolleranza per gli artisti di strada non ossessionati dalla dieta. Tette, ahimè, non se ne sono viste.
MANGIARE A MADRID (E QUI LA CITTÀ VINCE A MANI BASSE)
A parlare di panetterie e diete, viene appetito. E anche solo vicino a Plaza Mayor il turista col buco allo stomaco troverà soddisfazione. Ma questa città merita ben più che semplici soste per sfamarsi dopo lunghe camminate per vedere cose che non ricorderete più fra quattro settimane.
Madrid, infatti, dovrebbe comunque essere una destinazione obbligatoria per chiunque ami mangiare, e non solo tapas. Io, per esempio, avevo proposto ai miei compagni di viaggio di regalarci una cena da Sobrino de Botin. Non per la notorietà della sua cucina, ma perché considerato dal Guinness dei Primati il ristorante più vecchio al mondo. Alla fine, non ho fatto la prenotazione e non ce ne siamo pentiti. Perché la vacanza migliore è andare a zonzo, senza ansie da lista della spesa e senza dover guardare l’orologio.
Se la colazione mastodontica dell’NH Nacional vi avrà lasciato quel certo languorino, non sapete che vi aspetta là fuori. Non provateci nemmeno a tenere il portafoglio chiuso. Primo, perché a Madrid i prezzi sono bassi. Secondo, perché se non spendete per godervi la tavola… ma che ci siete andati a fare in vacanza? Davvero solo i selfie per Instagram? Contenti voi.
PARENTESI A PROPOSITO DI CIBO CHE NON SIA ITALIANO
“Oh, amo’, ma questo che ‘sta a di’?? Parla de cibo spagnolo… E tu?? Ancora lo stai a leggere?”.
Lo so, lo so, siamo italiani. Cresciuti con l’assoluta certezza che ne Lo Universo Mondo non esista alimentazione migliore di quella italica. Cresciuti con l’idea che lo nostre mamme, in cucina, fossero una specie di figura mitologica: metà Sora Lella e metà Gualtiero Marchesi. Tanto forte, l’attaccamento al mito materno e al nazionalismo culinario da cortile, da farci venerare il cibo di “mammà” nostra e farci disprezzare quello delle mamme altrui. Se nel cortile di casa trovi tutto quello che ti serve, già solo il quartiere ti sembrerà un’entità geografica vastissima e pure ostile. Figurati le cucine di qualcuno che non parla il tuo dialetto.
Dopo sei anni di vita americana, la domanda immancabile che con un sorrisetto di commiserazione mi rivolgono gli italiani è sempre la stessa: “dimmi la verità… ma non ti manca un po’ il cibo italiano??”. In genere, pure la mia risposta è quasi sempre la stessa.
Mi mancano quei rari pranzi che non consumavi a casa prima di rientrare al lavoro. Quelle mollicce farfalle al pesto che venivano riscaldate nel microonde del bar sotto l’ufficio. E mi mancano quelle milanesi di cartone, fritte a metà mattinata e che passavano l’altra metà nelle vetrine dello stesso bar e dei suoi consimili. Mi mancano quei panini da pranzo, la cui gommosa elasticità è sempre stata l’invidia dell’ufficio brevetti della 3M. Magari la memoria mi inganna, ma credo che la maionese fosse BASF.
Non mi mancano, invece, quelle quotidiane soste per ristoranti stellati e trattorie Slow Food. Ad ogni isolato, senza soluzione di continuità, l’offerta di vitelli tonnati, carni crude, tagliatelle stirate a mano, risotti ai frutti di mare appena pescati era una molestia senza fine per chi sognasse la fuga col panino gommato.
Siete confusi? Calo di zuccheri. Andiamo a mangiare, ché Madrid è la città giusta per prendere chili. Prendere, ho detto “prendere” (non “perdere”)
TRAPPOLE GASTRONOMICHE PER TURISTI DOVE NON VI PENTIRETE D’ESSERE TURISTI
Anche senza mai essere stati una sola volta in Spagna, è probabile che almeno una volta avremo sentito la parola magica: “tapas”. Plurale di “tapa”. La “tapa” è un piccolo piatto di stuzzichini servito con il bicchiere dell’aperitivo. Possono essere semplici olive o prosciutto crudo, come da tradizione, oppure pietanze più elaborate, a partire dalla frittata di patate per arrivare a calamari, polpo o qualunque altra preparazione di quella che pare sia adesso chiamata “cucina in miniatura”.
Se cercheremo l’etimologia di “tapa”, scopriremo che una delle storie più diffuse è quella che descrive una leggendaria e antica usanza di coprire (tapar) il bicchiere di vino con una fetta di pane o di prosciutto, per evitare che le mosche vi cadessero dentro. Scopriremo che, come tutte le leggende, la storia fa un po’ a pugni col fatto che la tradizione delle “tapas” si consolida in realtà molto più recentemente, nella Spagna post-Franco. Per quel che mi riguarda: non mi appassiono per i miti gastronomici italiani, figurati per quelli spagnoli. Parafrasando il lontano Andy Luotto de “L’Altra Domenica”, per il me il cibo è solo una questione soggettiva di “bbuono, no-bbuono”. E le “tapas” sono “bbuono”. Punto.
Allora, siete in Plaza Mayor. Spalle alla Statua di Felipe III e state guardando la facciata della Casa de La Panaderia, con le sue riconoscibili torri. Bene. Adesso giratevi di 45° e andate nell’angolo a sinistra. Uscite dalla piazza prendendo Calle De Ciudad Rodrigo. Alla fine del corto calle, voltare lo sguardo a sinistra. Si, quello è il famoso Mercado De San Miguel.
Famoso perché impossibile da evitare per turisti, non perché sia una rarità. Madrid è infatti piena di mercati coperti, dove si va soprattutto per comprare frutta e verdura e dove è possibile anche mangiare. Ma questo mercato centrale ha perso completamente la sua connotazione originaria. Oggi El Mercado De San Miguel è solo un gigantesco tapas bar. Il che non è per forza una cosa brutta. Siete/siamo turisti, che scarpinano per farsi un’idea della città e tornarcene poi a casa felici e contenti. Che male c’è se vicino alla più importante attrazione turistica cittadina c’è anche una luccicante fabbrica di ottime tapas? Nessuno. Basta non andare poi in giro, soprattutto per Madrid, a raccontare d’aver fatto un’esperienza da veri madrileni.
E POI, ANCHE SENZA CERCARLI, I VERI MERCATI DI MADRID
Nonostante la reale convinzione che visitare una città debba essere soprattutto una lenta scoperta, senza lo stress di mete e appuntamenti vari da rispettare, prima di partire avevo riempito la mia Google Maps con decine di luoghi degni di una sosta a Madrid. Nemmeno un ventesimo di quegli indirizzi è stato utilizzato. Vagare con C e D, raccontandoci fesserie, è stato molto più divertente.
Nel nostro vagabondare per Madrid ci siamo imbattuti per puro caso in un mercato che non avevo inserito in alcuna delle mie liste. E siamo stati ben contenti.
Quartiere Salamanca, la Madrid con i soldi, giusto a nord del Parque de El Ritiro. La tipica topografia a cazzo del centro città — eredità medievale lasciata dalla dominazione musulmana e cristiana — a Salamanca lascia spazio alla rigida ortogonalità di metà Ottocento. Roba che entra nel cuore di noi torinesi, da sempre abituati all’idea che tutti gli isolati della città debbano essere perfettamente squadrati e che una via diagonale sia un probabile disegno del diavolo.
Insomma, mentre nel suggestivo centro della città l’orientamento va a farsi benedire, a Salamanca è difficile perdersi. Così, mentre continuate a scarpinare, potrete dedicare tutte le vostre attenzioni allo shopping per i piedi secondo la moda spagnola, dalle Camper alle Manolo Blahnik. Stilisti, designer, gallerie d’arte e tutto quello che il vostro portafoglio non potrà permettersi.
Camminando per Salamanca non t’immagini che la gente possa anche sprecare denaro per frutta e verdura. Così la visione del Mercado de la Paz avrà lo stesso effetto di uno shock culturale.
Non troppi turisti e tanti, tantissimi madrileni. Sarà normale vedere famiglie con bambini, tutti a pranzare, rigorosamente in piedi, al bancone di uno dei bar o ristoranti del mercato. Perché le “tapas” sono la regola. E la regola è stare in piedi, senza che nessuno si lamenti, nemmeno i gagni (i bambini, a Torino). Noi, invece, abbiamo optato per l’eccezione, e ci siamo seduti ad uno dei tavoli di Casa Dani. Un bar ristorante senza troppe pretese, ma dove anche il conto rimane modesto. Morale? Tutti satolli e decisamente felici.
L’ORA DELLA PENNICHELLA: EL PARQUE DE EL RITIRO
Dopo il pranzo, e dopo un paio di meritati selfie a futura memoria, da rivedere con nostalgia quando viaggeremo con le badanti, la palpebra suggerisce che una piccola sosta sarebbe salutare.
Salamanca alle spalle, si ritorna su Placa de la Indipendencia, dove c’è uno dei tanti ingressi al parco principale di Madrid: il Parque de el Ritiro.
Tipico parco da tipica città dove i Re hanno messo becco. Un parco maestoso, ordinato, con lunghe prospettive, pieno di viali e vialetti che disegnano rombi, triangoli e altre simmetrie. Nulla a che vedere con i tortuosi percorsi dei grandi parchi della città da cui arrivo. A Brooklyn vivo non molto distante da Prospect Park, un parco che con i suoi 2 km quadrati d’estensione è anche di un quarto più grande de El Ritiro. Ma noi, al posto delle geometrie signorili, abbiamo invece il nucleo centrale del parco occupato dal “ravine”, un’area protetta lasciata pressoché selvaggia e considerata “l’ultima foresta di Brooklyn”. Quando ho nostalgia della Natura con la N maiuscola, me ne vado laggiù a passeggiare. Lasciamo fuori dal discorso il parco più famoso di New York, il Central Park delle cartoline hollywoodiane. Con i suoi quasi tre chilometri quadrati e mezzo di superficie non c’è gara.
Nonostante l’idea di riposarci, la vista dei natanti sull’Estanque Grande — il lago artificiale de El Ritiro — ci fa pensare che potremmo essere noi i tre uomini in barca, pur senza cane. La vista della coda per accedere all’imbarco ci rinsavisce. Ci buttiamo sul piano originario e pure a terra per la pennica.
Tutto è bene quel che finisce bene.
NON USARE LA COMODA METROPOLITANA DI MADRID QUANDO PUOI CAMMINARE O, ANCORA MEGLIO, NOLEGGIARE UN’AUTO
Tanto brava e tanto buona, Greta. Chi non vorrebbe una figlia così? Spiccata sensibilità ambientale (che ci serve) e macchina da soldi (ci servono pure quelli). Io la vorrei, una figlia come Greta. E mi andrebbe bene anche il suo tono apocalittico: si sa, i giovani sono passionali. Per questo sto educando il mio piccoletto all’uso dei piedi e della metropolitana. Quando mi chiede d’usare l’auto, la mia risposta è: non ci serve, possiamo camminare.
Per rimanere fedele ai miei principi, prima d’arrivare a Madrid mando un messaggio ai miei due compari di ventura: ”e se all’aeroporto affittasi una bella 500? Eh?”.
Forse, sotto sotto, la geniale idea di noleggiare un’auto si collegava inconsciamente all’altrettanto brillante proposito di partire per Siviglia una volta vista Plaza Mayor. E poi, andava avanti il mio ragionamento, la 500 è una macchina piccina, che parcheggi ovunque.
Vero, si parcheggia ovunque. Se solo l’ovunque davanti al tuo albergo madrileno concepisse degli spazi per parcheggiare, e se le vie limitrofe non fossero sostanzialmente bloccate al traffico. Insomma: non aver preso la macchina all’aeroporto s’è rivelata una delle scelte più furbe della visita a Madrid, insieme a quella di dedicare tempi lunghi alle colazioni e al prosciutto crudo spagnolo.
Ma dopo esserci riposati per benino al Parque de El Ritiro, la geniale idea dell’auto è tornata a galla. Così, con i precisi strumenti di geolocalizzazione messi a disposizione dai nostri telefoni, abbiamo individuato la più vicina vettura di Car2Go. Una volta designato D come nostro autista, la domanda cruciale: e mo’ che abbiamo la macchina, dove andiamo?
IL RE NON C’È E PER QUESTO NON SI VEDE: IL PALAZZO REALE DI MADRID
Puoi anche essere socialista o anarchico, ma quando arrivi a Londra vuoi vedere dove abita la Regina. Puoi sfottere o disdegnare chiunque tra amici o conoscenti subisca la fascinazione della Famiglia Reale e della prole principesca. Ma vuoi vedere pure tu Buckingham Palace. Fosse pure solo il tuo Gaetano Bresci, a parlare, ti sta chiedendo d’andare a toccare con mano quella cancellata che ha visto su Novella 2000 (si chiama ancora così?). Anche se tu sai bene che il tuo intimo Bresci, in verità, preferiva comunque le copertine di Cronaca Vera, ancora più viziose.
E così, una volta saliti in macchina, con C e D abbiamo deciso di fare rotta al Palacio Real de Madrid. Che è un’idea stolta. Non l’idea d’andare a vederlo, quanto quella d’andarci in auto. Perché dal Parque de El Retiro alla residenza dei Reali di Spagna ci saranno al massimo un paio di chilometri, giusto mezz’ora di camminata. Almeno ogni giorno, a New York, io faccio a piedi almeno il doppio di quei chilometri. E ci sono anche giornate in cui cammino almeno tre ore e copro dai tredici ai quattordici chilometri. Ma vuoi mettere il gusto di prenderla larga e osservare Madrid dal finestrino chiuso? Impagabile, se si esclude la dozzina di euro che D ha sganciato a Car2Go per rendere indimenticabile la nostra mini vacanza del mezzo secolo.
Indimenticabile pure la reazione di C quando siamo arrivati in zona Palacio Real e io e D abbiamo provato a seguire il consiglio del parcheggiatore abusivo. Vero che C, per usare un eufemismo, non elenca i posteggiatori abusivi nella sua lista della persone degne della massima considerazione. E vero, inoltre, che si trattava di un tardo sabato pomeriggio, con zero vigili in circolazione nelle strade a valle del Palazzo Reale. Ma, sempre a onor del vero, occorre ammettere che il posteggiatore voleva farci lasciare la nostra macchina davanti ad un grande cartello con la seguente scritta: “prohibido aparcar”. Anche a scamparla sul momento, prima o poi quella Car2Go sarebbe stata in divieto di sosta, e D avrebbe ricevuto l’addebito della multa dritto dritto sulla sua carta di credito.
Così abbiamo fatto retromarcia e ci siamo ritrovati a parcheggiare, non senza fatica, su Calle Mayor, letteralmente a due passi da Plaza Mayor. Tenuto conto che da Placa de la Independencia siamo andati a sud lungo Calle Alfonso XII, e poi sulla Ronda de Atocha e quella di Toledo; e poi siamo tornati verso nord, sulla Gran Via de San Francisco e il Calle dei Bailén (cioè tutte cose che voi vi state rappresentando davanti agli occhi), vuol dire che abbiamo parcheggiato quasi al punto di partenza. Geni assoluti.
E il Palacio Real? Bello, per carità. Chiuso, ovvio. E, va da se, senza Reali di Spagna. Perché laggiù non ci vivono più da anni, e ci vanno solo le per occasioni ufficiali. Il Re Felipe e la Regina Sofia vivono a dieci chilometri da dove i turisti si ammassano per un selfie con la cancellata. Al Palacio de la Zarzuela, nella sicurissima e isolatissima periferia a nord-ovest della Capitale. Contenti loro. E contenti pure noi: selfie ai limiti della luce perfetta.
PRIMA DI PROSEGUIRE, MA PERCHÉ QUESTA “GUIDA INUTILE MADRID”?
Iniziamo a ricapitolare. In questa improbabile Guida Inutile Madrid non ci sono informazioni che possano servirvi un granché se avrete davvero deciso di visitare Madrid. Quelle le trovate sulle guide serie, a pagamento.
Allora quale potrebbe essere, di grazia, lo scopo di questo post? Un obiettivo potrebbe essere quello di ricordare a voi tutti che pure il sottoscritto segue esattamente lo stesso consiglio che dispensa quando scrive la Guida Inutile New York o quando porta a spasso turisti nella sua nuova città: l’unica cosa che conta, quando abbiamo la fortuna di visitare un nuovo luogo, o anche di tornare in uno che abbiamo già visitato, è quella di mettere da parte dei ricordi.
Oh, voi siete liberi di fare quel volete. Vi piace venire a New York e non volete perdere per nessuna ragione la Santissima Trinità Dei Musei (Met, MoMA e Museo di Scienze Naturali)? Prego, accomodatevi. Volete assolutamente fare il giro della Statua della Libertà, Ellis Island, salire sull’Empire State Building, e poi il Top of the Rock perché altrimenti pensate di non essere stati a New York? Non vi ferma nessuno. Anzi, se proprio ci tenete, vi posso anche ricordare che state lasciando fuori il Ponte di Brooklyn, Central Park, la High Line, lo Staten Island Ferry, il Flatiron Building, il Chrysler Building, Grand Central Terminal, il Madison Square Garden, Washington Square Park, Union Square, il Memoriale dell’Undici Settembre, Wall Street, la Trump Tower (ché se Donald non veniva eletto, non la cagava nessuno), e pure l’ultimo arrivato, il Vessel. Non vi elenco i quartieri, solo per non generarvi ancora più ansia da fallimento.
Insomma, che sto tentando di dirvi? Quando fate i turisti, quando magari venite a visitare New York, regalatevi dei momenti completamenti inutili. Inutili ai fini della visita e della conoscenza della città. Fidatevi, quella non ce l’ha manco chi vive qui da cinquant’anni. Fermatevi. Concedetevi momenti in cui volete solo cercare una panchina e tenere la mano di chi amate. Importa niente a nessuno se vi fermate in uno slargo di cemento o su una panchina della metro. Oppure cercate un qualunque giardino con un’altalena, anche di quelli circondati dai rifiuti, e portateci i vostri bambini a giocare. A loro non fregherà una mazza di cartacce o lattine. E voi avrete ricordi che varranno per sempre, ben più di un selfie a Times Square. Ecco, vedete, avevo dimenticato Times Square! Quello che tutti i turisti considerano il luogo simbolo di New York… E perché l’ho dimenticata? Perché se trovate un newyorchese a cui piaccia, vi pago. Anzi, chiedo a lui di pagarvi.
Torniamo a Madrid. (Ricordandoci di saltare rigorosamente, come minimo: la Plaza de Toros, il Museo Tyssen Bornemisza, l’Ermita de San Antonio de la Florida e San Lorenzo de El Escorial. Il Museo del Prado, bontà nostra, lo abbiamo già evitato a piè pari).
GIORNO E NOTTE TRA MALASAÑA E CHUECA
Con tutto lo splendore dei suoi simboli e tesori artistici da capitale monarchica, la Madrid che resterà nella mia memoria è fatta di cerveza e jamon. Se fosse jamon serrano o iberico de bellota, non ne ho la più pallida idea. E nemmeno mi interessa. Ricordo che era bbuono. Me lo sarei ricordato anche se fosse stato no bbuono. Ora che ci penso, la mia Madrid è fatta anche di croquetas, tantas croquetas. De jamon, s’intende.
Questa Madrid che lascia tracce profonde nelle papille, e non si cura più di tanto di stupire le pupille, si trova a due passi dal centro affollato dai turisti. Nei due quartieri limitrofi di Malasaña e Chueca. Non esistono luoghi migliori per comprendere una cosa semplicissima: rinchiudersi per musei o limitarsi ai percorsi della città storica fa perdere l’essenza di Madrid, che è nelle sue strade e nei suoi tanti bar, dove a qualunque ora le persone si trovano per bere qualcosa e mandar giù delle olive. Le tapas sono una ragione di vita.
Quando alla fine degli anni ‘80 i ragazzi come il sottoscritto ancora sbavavano all’idea della movida madrilena, non sapevano che era in questi due quartieri che la città del dopo-Franco si era risvegliata. 40 anni di dittatura avevano lasciato il segno e i madrileni volevano riprendersi il tempo perso. Libertà, libertà, anche quella sessuale. E così loro avevano Almodóvar, e le sue commedie romantiche, melodrammatiche e poi nere e poi drammatiche. Mentre noi, che dalla dittatura eravamo già usciti da un pezzo ed eravamo alle prese con la definitiva disillusione del post-Miracolo Italiano, avevamo Salvatores, che parlava di amici nostalgici e in fuga.
Malasaña, la Madrid della contro-cultura, la città alternativa. Chueca, la Madrid gay e lesbica, la Capitale il cui Parlamento ha approvato il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel 2005.
Che cosa vi consiglio, a Malasaña e Chueca? Prendetevela comoda, camminate fino a quando non trovate qualcosa che vi ispira. Personalmente, questi due quartieri limitrofi valgono l’intera visita a Madrid. Non cercate gioielli architettonici, non li troverete. Magari troverete anche negozi finto vecchi o bar pretenziosi. Ma sono più veri e reali di tutta la Madrid Reale possibile e immaginabile. Uh, stesso discorso vale per chi apprezza invece le boutique e il lusso di Salamanca.
Vi imbatterete in tapas bar ovunque. La prima sera, quella di venerdì, noi siamo stati fortunati a fermarci per l’aperitivo alla Bodega de la Ardosa. E poi a cenare al ristorante La Dominga. Entrambi a Malasaña. La seconda e nostra ultima sera, quella di sabato, non volevamo stare in piedi. Ma sembrava impossibile riuscire a sedersi da qualche parte senza aver prenotato (e noi avevamo deciso di non prenotare, sebbene avessimo una piccola lista con delle chicche, perché volevamo sentirci liberi). Il caso ci ha aiutato di nuovo. A Chueca siamo passati davanti al Mercado de San Anton e abbiamo deciso d’entrare. Al secondo piano ci aspettava il miracolo. Tre sgabelli liberi ad uno dei lunghi tavoli della Trastienda. Pur circondati da bottiglie di vino d’ogni tipo, io mi sono tenuto alla tradizione della nostra due giorni madrileña. E così le mie uova al tartufo sono state accompagnate da birra. Va da se: abbiamo anche ordinato croquetas e jamon. Siempre.
MA CHE BELLA DOMENICA COLORATA
Viaggiare con C significa che io e D non ci siamo nemmeno dovuti preoccupare per un secondo dell’albergo. La camera di C prevedeva il check-out nel pomeriggio. Perfetto per godersi una lenta e al solito abbondante colazione, e poi per abbandonare i bagagli senza stress.
Con la mattinata e il primo pomeriggio di domenica a disposizione, che fare?
Le guide serie dicono che la domenica a Madrid va dedicata a El Rastro, il più grande e famoso mercato delle pulci in città. Si estende da Plaza de Cascorro e su Ribera de Curtidores, nel quartiere Embajadores. Per raggiungerlo dal nostro albergo abbiamo attraversato Lavapies, l’unico quartiere del centro di Madrid che ti dimostra che un altro mondo è possibile. Ma forse, come in gran parte d’Europa, l’evoluzione di questo pianeta è ancora ben lontana dal materializzarsi.
A Lavapies i volti non sono più solamente pallidi e bianchi. Qui si vede l’immigrazione dall’Africa e dal Medioriente. Le case sono modeste, alcune assomigliano alle moderne case popolari italiane, seppur in dimensione ridotta per la costrizione degli spazi. Anche a Lavapies, come in tanti altri quartieri d’Europa, l’integrazione è solo un ideale.
Vengo da un paese, l’America, dove l’integrazione di culture diverse non è più semplice e quella che si ammira è spesso solo superficiale. Vivo in una città, New York, che è nota per la segregazione dei suoi quartieri. Certo, viviamo tutti insieme. Attraversiamo la città con la stessa metropolitana, dove non possiamo fare a meno di mischiarci e toccarci. Lavoriamo negli stessi uffici e prendiamo una fetta di pizza negli stessi luridi locali. Ma alla sera, quando andiamo a dormire, molti di noi tornano in quartieri dove la diversità è scarsa. I più fortunati vivono in zone dove si vedono tutti i colori possibili e si ascoltano le lingue più disparate. Dove l’integrazione sociale ed economica si fa in qualche modo strada. Ma tanti altri vivono in quartieri dove l’omogeneità è la regola: i bianchi benestanti vivono con altri bianchi benestanti, i cinesi vivono con altri cinesi, gli afroamericani con altri afroamericani e così via, passando per le diverse enclave religiose, dai musulmani più integralisti agli ebrei più ortodossi, e per le comunità dei tanti latinoamericani che da decenni sono emigrati a New York.
Ma anche nelle più omogenee e bianche città dell’America interna, quell’heartland che i giornalisti di New York e Washington visitano solo quando i Reagan e i Trump arrivano alla Casa Bianca, la storia dell’immigrazione si perde nel tempo. Ti basta parlare con le persone, chiedere i loro nomi di famiglia e sentirai cognomi che ti ricorderanno la Germania, l’Irlanda, la Polonia, la Scandinavia, la Grecia. E l’Italia. Perché i nostri immigrati sono arrivati in America a milioni. Per questo in America si mangiano le pizze nella maniera più disparata, e così pure i panini ignoranti e tutto il resto che rende amabile la cucina italo-americana, nonostante le ironie con cui è accolta dai tanti nostri connazionali che vengono in visita quaggiù.
Quando l’America discute di immigrazione, non ha davvero idea di cosa avvenga in Europa. Fa paragoni e pensa che ci siano similitudini. Ovvio, ci sono. Ma sono ben più vaghe di quel che loro riescono a vedere. Dovrebbero venire nelle Lavapies d’Europa e capirebbero che in America, con tutti i loro problemi di assimilazione e contrasti tra culture diverse, sono ancora avanti, e di molto, rispetto a mezzo mondo.
Godetevi la vostra passeggiata a El Rastro, curiosando tra le bancarelle. Lasciate da parte lo snobismo, che è pure lo stesso di tanti giovani hipster madrileni che scrivono quanto questo mercato delle pulci abbia niente di speciale. Cazzoni. Perché mai un mercato delle pulci dovrebbe essere speciale? Perché loro o chiunque altro decide cosa sia di tendenza? A El Rastro ci puoi andare per comprare vestiti per i bambini, o un cd di Paco de Lucia (come ho fatto io) o caricabatterie per il telefono o dentifrici. O anche solo per tentare di passeggiare tra una folla quasi immobile. Vale.
PRONTI, PARTENZA… E VIA, SIGH
Lasciamo El Rastro e torniamo a salutare per un’ultima volta Plaza Mayor. C e D sono a caccia d’un souvenir speciale (torta di patate sott’olio, in tanto di latta con la data di ogni possibile anno dal 1930 in poi). Io devo comprare qualcosa per il mio piccoletto (la Ragazza Dai Capelli Rossi, invece, ha beneficiato della mia sosta in una piccola bottega di Salamanca). Me la cavo con un modellino di furgone della locale polizia. Quando chiedo al negoziante di farmi vedere proprio una macchinina della polizia, lui mi dice d’aspettare. Dopo un po’, se ne torna con più di mezza dozzina di modelli, i più improbabili. Il Generalissimo Franco sarà pure morto da un pezzo, ma quaggiù la polizia si fa notare in tutti i modi possibili, e te lo ricorda pure coi giocattoli.
L’ultimo pranzo arriva in Plaza de Santa Ana. Al Lateral ci accomodiamo ad un piccolo tavolino. Siamo stati fortunati, perché dopo pochi minuti il ristorante si è affollato. Copriamo il tavolino con ogni pietanza possibile, dai carciofi ai fagioli passando per la trippa. Quando arriva il piatto di D lo confondo con quello che avevo ordinato io. Mangiato metà, bbuono. D dice che mi vuole ancora bene. Ma una volta, andando insieme a Parigi in Vespa, ha detto che far cassa comune con me è una disgrazia. Non c’ha manco tutto ‘sto torto. Ma dopo più di 35 anni di amicizia, ancora non separiamo i conti.
Si torna in albergo. Ci mancherà anche l’NH Nacional, soprattutto la camera di C, con tanto di terrazzino dove ci immortaliamo nelle ennesimo selfie delle ultime 48 ore.
MADRID È SOLO UN LUOGO DELLA MENTE. ANDATE DOVE VI PARE, POSSIBILMENTE CON QUALCUNO A CUI VOLETE BENE
Questo lungo post, che ignominiosamente ho definito Guida Inutile Madrid, aveva in realtà uno scopo molto chiaro, e molto personale: aiutare la mia memoria futura a ricordare il viaggio di tre amici nell’anno in cui tutti e tre, finalmente, hanno varcato la soglia delle 50 primavere.
Tre amici che si conoscono da qualche decennio. Io e D ci conosciamo dai tempi del liceo, C lo abbiamo incontrato all’Università. Più di trent’anni in cui abbiamo vissuto insieme momenti felicissimi e altri dolorosi. Anni di condivisioni e anni di incomprensioni. Intrecci impensabili hanno anche determinato chi adesso è a casa ad aspettarci. L’ex compagno di C mi ha presentato quella che poi è diventata mia moglie, la Ragazza Dai Capelli Rossi. Anch’io ho fatto la mia parte: organizzando tempo addietro un aperitivo speciale per fare incontrare proprio C e quello che poi è diventato il suo compagno di vita. Quanto a D, per le questioni di cuore lui ha sempre fatto da solo. E in genere le sue storie son più imprevedibili.
Una cosa è certa. Per la prossima avventura dei Three Amigos, pretenderò che i due torinesi vengano almeno nel mio nuovo Continente.
Adios.