Photoville, dove le fotografie raccontano davvero
Per chi ama la fotografia, e poco i fronzoli, Photoville a DUMBO, Brooklyn
La “Mortadella” non è solo il famoso salume che trova la morte sua dentro la focaccia unta d’olio. È anche il titolo di un film con Sophia Loren e Gigi Proietti (e pure Danny De Vito e Susan Sarandon) del 1971. Commedia italo-francese ambientata a New York, e che in America ha preso il titolo di Lady Liberty. Alcune scene sono state girate a Dumbo, Brooklyn, in quello che in città viene considerato il quartiere da Instagram per eccellenza. Con la famosa vista del Manhattan Bridge e l’Empire State Building sullo sfondo, incastonato proprio tra i pilastri del ponte, Dumbo è la metà per qualunque “instagrammer” seriale del pianeta.
DUMBO, DALLE TUTE BLU AI FILTRI ARANCIONI
Ma Dumbo, il quartiere preso d’assedio dai turisti che vogliono la Brooklyn mordi e fuggi (dove il “mordi” è adesso soddisfatto dai ristoranti della nuova Food Hall del TimeOut Market), non è sempre stata una metà per visitatori alla ricerca della perfetta cartolina da New York, anche ben prima che arrivasse Instagram coi suoi filtri. Nemmeno si chiamava DUMBO, che è l’acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass.
Dumbo, ancora per tutti gli Anni ‘70, è stato uno dei quartieri del lunghissimo fronte del porto newyorkese a Brooklyn. Qui negli Anni ‘30 c’erano fabbriche e decine di magazzini per lo stoccaggio delle merci. Si chiamava Gairville, perché un industriale di nome Robert Gair aveva laggiù le sue dieci fabbriche dove venivano assemblate macchine per produrre cartoni da imballaggio. Poco distante, nel Brooklyn Navy Yard, si trovavano i cantieri navali dove avveniva la manutenzione delle navi militari. La chiusura definitiva di quella fase della vita di Dumbo è avvenuta nel 1984.
Questa storia di fabbriche, navi container, declino industriale, mortadella con Sophia Loren e loft per artisti è adesso raccontata attraverso una dozzina d’immagini raccolte sotto il nome di “Past Tense: Dumbo before Instagram”. Si tratta di un progetto curato dal New York Times ed è esposto in uno degli oltre sessanta container di Photoville.
PHOTOVILLE, DAI CONTAINER PER MERCI A QUELLI PER FOTOGRAFIE
Da otto anni a questa parte Photoville è l’evento fotografico che, nelle due settimane centrali di settembre, si tiene a proprio Dumbo, sotto le arcate del Ponte di Brooklyn. Novanta le mostre presentate nei container o all’aperto da Photoville 2019, che apre i suoi cancelli in due lunghi fine settimana: da giovedì 12 a domenica 15, e poi da giovedì 19 a domenica 22. Ingresso gratuito, ma un’offerta di 5 dollari è ampiamente caldeggiata per mantenere gratuita anche in futuro la manifestazione.
Nonostante la notorietà di Dumbo, e la sua trasformazione in un quartiere di grandi uffici, e di residenze per popolazione con portafogli voluminosi, Photoville non è un evento pretenzioso oppure di quelli pensati con un occhio agli addetti ai lavori o a futuri collezionisti.
A Photoville si bada alla sostanza, come testimonia l’utilizzo dei vecchi container portuali per esporre i lavori ospitati. Ed è realmente una città delle foto aperta a tutti. Anche chi si sentisse a disagio ad entrare in un container, o pensasse erroneamente di non essere all’altezza per capire la fotografia, potrebbe ugualmente apprezzare questa festa delle immagini. Tutto il perimetro esterno di Photoville è tappezzato di mostre fotografiche. Passando là davanti, per turismo o per andare al lavoro, è impossibile non buttare almeno lo sguardo.
Photoville è soprattutto una vetrina per fotografi poco conosciuti. Ma anche per coloro che, pur lavorando per grandi istituzioni culturali o giornali e settimanali importanti, non hanno ancora raggiunto l’apice della vera fama. Forse mai la raggiungeranno. Perché non la cercano e sanno che oggi difficilmente la troverebbero. Le macchine fotografiche digitali, l’avvento di internet, il declino della carta stampata e l’ascesa dei social media stanno tutti contribuendo a ridefinire il lavoro dei fotografi contemporanei. La competizione è feroce.
LA DURA VITA DI CHI FOTOGRAFA PER DAVVERO
Il Mondo da cui arrivano i fotografi di Photoville è pieno di storie, ma gli occhi che potrebbero vederle sono distratti, sottoposti ad un continuo flusso di immagini. Un flusso gratuito, veloce, che acceca spesso dagli schermi dei telefoni. Diventa difficile, per questi nostri occhi frenetici, fermarsi davvero a guardare una fotografia. Meno che mai pagare per apprezzarla. Peccato che anche i fotografi abbiano l’affitto da pagare. Da questo circolo vizioso riescono a salvarsi solo quelli che abbiano contemporaneamente il dono naturale di relazionarsi con il prossimo (necessario per raccontare storie) e una discreta disponibilità economica (necessaria per far fronte a investimenti e tempi bui).
Photoville richiederebbe almeno un paio di visite, una per fine settimana. E nemmeno quelle basterebbero. Anche solo a dedicare cinque minuti a ciascuna delle esposizioni, servirebbe almeno una giornata intera di otto ore, con un paio di veloci pause per il bagno e magari per un panino. Invece di farsi prendere dalla smania di voler vedere tutto, meglio fare scelte. Leggere prima il programma potrebbe aiutare. Ma anche solo andare a naso è sempre cosa buona.
Le mostre di Photoville sono dei reportage concentrati. L’approccio documentaristico tocca i temi più disparati. Nell’edizione 2019 c’è spazio per argomenti molto sentiti in America, come la crisi da oppioidi o le discriminazioni razziali. Ma anche per temi più universali, come l’onnipresente cambiamento climatico.
COSA HA VISTO A PHOTOVILLE LA GUIDA INUTILE
Nonostante avessi il catalogo distribuito all’ingresso, per avere un’idea ho preferito fermarmi di fronte alla grande mappa con i nomi dei progetti esposti. Poi sono andato completamente a caso, senza nemmeno preoccuparmi di seguire un filo logico nel mio vagare tra i container. Sbirciavo al volo la descrizione sulle porte e decidevo se entrare o meno.
Ecco dove mi sono fermato più a lungo.
“CAMINANTES: THE VENEZUELAN EXODUS”, di Felipe Jacome.
Tanti venezuelani stanno abbandonando il loro paese, dove il vecchio bolivar è diventato carta straccia, una moneta abbandonata a causa della iper-inflazione. Jacome, fotografo ecuadoriano, ha seguito un gruppo di questi migranti. E ha stampato i loro volti su banconote del vecchio bolivar.
“SEGREGATION BY DESIGN”, progetto realizzato da Jamahl Richardson con studenti delle scuole superiori di New York.
Negli Anni ‘30 le banche americane rifiutavano mutui a tante famiglie afroamericane, perché ritenute incapaci di ripagare il debito. Esistevano mappe del rischio di insolvenza in tutte le grandi città. I confini dei quartieri più poveri e più a rischio per le banche, come quelli dove vivevano i neri, erano evidenziati in rosso sulle mappe. Le fotografie scattate dagli studenti delle high school di New York per questo progetto mostrano come ancora oggi quei quartieri subiscano le conseguenze del “redlining”.
“STORIES FOR THE ARCTIC REFUGES”, artisti vari.
In Alaska, da millenni, gli abitanti dell’area protetta che ora si chiama Arctic National Wildlife Refuge si nutrono con la carne del Porcupine Caribou. Consentendo le esplorazioni petrolifere, l’Amministrazione Trump sta mettendo a rischio l’ecosistema e la sopravvivenza delle popolazioni di questi territori. Le fotografie più intese di questo progetto mostrano la vita delle famiglie durante la stagione della caccia prima dell’inverno.
“JALILA: SURVIVING WAR AND FAMINE IN YEMEN”, di Nariman El-Mofty.
Sofferenza e speranza per la popolazione in Yemen, stretta in una guerra civile interminabile tra le milizie ribelli Houti e le forze governative appoggiate dall’Arabia Saudita.
“OF LOVE AND WAR”, di Lynsey Addario.
La guerra in Afghanistan, il genocidio in Darfur e la crisi dei rifugiati in Siria sono solo alcune delle storie raccontate da una fotoreporter i cui lavori sono pubblicati su Time, National Geographic e New York Times.
“PLAYBOY BEHIND THE LENS”, artisti vari.
Tra le fotografie di nudo realizzate per il famoso mensile ci sono anche quelle di Salvador Dalì e Andy Warhol.
“LOOKING INSIDE: PORTRAITS OF WOMEN SERVING LIFE SENTENCES”, di Sara Bennett.
Le storie di venti donne condannate all’ergastolo. Ogni fotografia è accompagnata da una didascalia, in cui ciascuna donna descrive chi è oggi, ad anni di distanza dai crimini commessi e dopo il lungo tempo trascorso in carcere.
NEW YORK È LA VERA PHOTOVILLE
Tempo di tornare a casa. Non prima d’aver scattato un’ultima foto.
Chi arriva in questa città, soprattutto la prima volta, rimane sempre in qualche modo folgorato. Dai grattacieli visti decine di volte al cinema, dalle strade rese riconoscibili anche nelle serie televisive ambientate a New York ma girate rigorosamente negli studi di Hollywood. E poi, ancora, rimane impressionato dalla varietà umana che popola questa città, come poche altre al mondo.
E allora, Photoville o non Photoville, quando siete a New York regalatevi un tramonto nella zona tra Dumbo e il Brooklyn Bridge Park oppure su a Brooklyn Heights. Pur con tutta la mia malcelata insofferenza per chi arriva in città e si crede un fotoreporter d’assalto, di quelli col diritto di mettere l’obiettivo sotto il tuo naso, chi viene da queste parti per la cartolina a fine giornata ha tutta la mia comprensione.
A volte, anche New York sa davvero sorprendere.