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US Open, sognando Matteo Berrettini

Per la prima volta nella sua vita, la “Guida Inutile New York” ha visto un incontro di tennis dal vivo. Non poteva che essere a Flushing Meadows, per gli US Open.


“Matteo! Matteo!! Matteo!!!”

Mai nome fu più controverso e polarizzante. Almeno a prima vista, per un vostro connazionale che dalla lontana America provasse a farsi un’idea di cosa accada in Italia leggendo pensieri e battute dei suoi disparati contatti su Facebook. 

Ma su questa “Guida Inutile”, il mio unico e superlativo Matteo, è un altro. Berrettini Matteo, da Roma. Una montagna di quasi due metri, ventitreenne, che gioca a tennis. E chi l’ha visto giocare di recente qui a New York, agli US Open, sa anche un’altra cosa: Matteo Berrettini è un tennista italiano atipico, perché non fa sceneggiate in campo. Quando scrivo queste righe, anche un’altra cosa è certa: Matteo Berrettini giocherà in semifinale contro Rafael Nadal, il numero due al Mondo.

Io non ho ancora avuto la fortuna di vedere giocare dal vivo Berrettini. Un giorno, magari. Ma quest’anno ho avuto la fortuna d’andare agli US Open, a Flushing Meadow. La prima volta nei miei sei anni e mezzo di vita a New York. La prima volta in assoluto ad assistere ad una partita di tennis senza essere seduto di fronte a un televisore.

CERCANDO UN BAGARINO PER GLI US OPEN STANDO SDRAIATI SUL DIVANO DI CASA

USTA Billie Jean King National Tennis Center, US Open 2019

Sabato sera, dopo aver assistito alla sconfitta della giovanissima promessa americana Coco Gauff contro la giapponese Naomi Osaka, campionessa in carica agli US Open, ho deciso: anche gli Spedalieri dovevano andare a mettere piede al mitico Arthur Ashe Stadium. Giorno disponibile per l’intera famiglia? Martedì 3 settembre. Atleti in competizione quel giorno? Non pervenuti. Volontà d’andare comunque al buio? Totale.

Tutto è maledettamente caro, qui a New York. Non solo gli eventi sportivi non fanno eccezione, ma spesso hanno prezzi insostenibili per una famiglia. Il biglietto più economico per un incontro casalingo dei NY Giants, la squadra per cui piango una domenica si e l’altra pure, costa 90 dollari, tasse e diritti di prevendita esclusi. Essendo perfettamente consapevole dei limiti del mio portafoglio, ho aperto Ticketmaster con l’assoluta certezza che saremmo rimasti a casa. Mutande, aria condizionata, birra e rutto libero.

A quel punto, l’imprevisto. Non solo biglietti ancora disponibili per le partite pomeridiane. Ma con 100 dollari avrei potuto portare tutta la famiglia in gita a Flushing Meadow. Le mutande le avrei potute indossare comunque, anche se nascoste dai pantaloni. Era al rutto libero che avrei dovuto rinunciare…Momento di indecisione. Respiro profondo. Vai con i dati della carta di credito! Ero pronto al sacrificio.

LEGGERE IL FUTURO IN UNA PALLA DA TENNIS

Domenica 1 settembre, Casa Spedalieri, divano, ottavi di finale (“round of 16”, come si dice in inglese). Sono le partite che decideranno chi vedremo noi martedì. Tra le donne, riuscirà l’americana Madison Keys a battere l’ucraina Elina Svitolina? Ma soprattutto: riuscirà il serbo Novak Djokovic, numero uno nella classifica ATP, a battere lo svizzero Stan Wawrinka, numero 24? Wawrinka ha battuto in finale Djokovic proprio qui a New York nel 2016, quando il serbo era già al top tra i tennisti del pianeta.

Svitolina si mangia Keys e va ai quarti. La spalla sinistra di Djokovic lo convince a ritirarsi all’inizio del terzo set, quando già aveva perso i primi due 6-4 e 7-5. Se mai avessimo avuto il sogno di vedere una partita con il Numero 1 al Mondo, quel sogno sarebbe diventato comunque impossibile. Quanto agli altri due papabili per il titolo, Federer e Nadal, il primo avrebbe perso martedì sera contro il bulgaro Dimitrov e il secondo avrebbe piegato il giorno dopo la resistenza dell’argentino Diego Schwartzman. Ovviamente, a parte la defezione di Djokovic, noi non avevamo la benché minima idea di cosa ci avrebbe riservato il futuro.

COME ARRIVARE AGLI US OPEN

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Il passaggio pedonale che porta al complesso di Flushing Meadows dove si tengono gli US Open

Per raggiungere l’USTA Billie Jean King National Tennis Center, cioè l’immenso complesso sportivo che ogni anno, da fine agosto, ospita a New York per due settimane gli US Open, occorre prendere la metro 7 in direzione Flushing, nel Queens.

Se si esclude lo stadio degli Yankees, che si trova nel South Bronx, tutte le grandi strutture all’aperto della città si trovano nel Queens. Perché lì, a differenza di Manhattan e Brooklyn, c’era ancora spazio. Non solo i due aeroporti JFK e La Guardia, ma anche lo stadio dei New York Mets (la seconda e sfigata squadra di baseball cittadina) e, soprattutto, il centro dell’universo tennistico.

Anche chi, nella Città Mondo per eccellenza, vive fuori dal Mondo, e non ha la benché minima idea di cosa significhi 15-love, prendendo la metro 7 negli ultimi giorni di agosto e nei primi di settembre, noterà qualcosa d’insolito. Perché i treni di metà mattina, che vanno in direzione della grande Chinatown del Queens, sono non solo affollati ma anche popolati di strani figuri che indossano Rolex e borse di Yves Saint Laurent come nulla fosse?

Dei cinque borough che costituiscono New York City, il Queens è secondo per popolazione dopo Brooklyn, con 2 milioni e 300mila abitanti. Ma è il primo per diversità etnica e razziale (e smettetela di storcere il naso quando gli americani tutti parlano di razza, perché quaggiù non è in ballo il fatto che le razze non esistano, che ci sia solo una razza umana e blah, blah, blah: qui parliamo di un sistema, per quanto impreciso, per avere dati che descrivano la complessità demografica).

QUEENS, NY, USA, MONDO. LETTERALMENTE

Nel Queens quasi la metà della popolazione non è nata in America. Si parlano decine e decine di lingue. Letteralmente il Mondo intero è rappresentato nel Queens, e non certo solo nei giorni degli US Open. Neri, bianchi, asiatici, ispanici, nativi americani. Cinesi, indiani, coreani, italiani, tedeschi, polacchi, filippini, siriani, afghani, libanesi, e potremmo andare avanti quasi senza sosta. Vuoi mangiare tibetano? Devi andare nel Queens. Serbo? Idem come sopra. Cervello di capra all’afghana? Ci siamo capiti. Solo per la cucina dello Sri Lanka i ristoranti migliori sono a Staten Island.

Diversità etnica significa, in soldoni, che moltissimi quartieri del Queens sono autenticamente popolari. Non si vedono le madamine ingioiellate da testa a piedi della Upper East Side, i vecchi intellettuali del West Village, gli ex hipster arricchiti di Williamsburg con prole al seguito o i giovani che affollano i concerti indie a Bushwick. Insomma, gli immigrati non fanno tendenza, se non sulle pagine Facebook dei progressisti di cui sopra. Gli immigrati prendono la metro perché non hanno i soldi per Uber. Non perché è il mezzo più veloce e diretto per raggiungere gli US Open di tennis.

BENVENUTI A FLUSHING MEADOWS

Arrivati alla stazione Mets-Willets Point non sarà difficile comprendere come raggiungere l’USTA Billie Jean King. Non fosse altro che l’uscita si apre direttamente sul lungo ponte pedonale che porta laggiù. I più originali possono andare invece nel senso opposto, verso lo stadio dei Mets e, soprattutto, verso l’immensa area dei carrozzieri e meccanici di Willets Point. Imperdibile per capire che è successo dai tempi del Grande Gatsby.

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L’Unisfera del Flushing Meadows Corona Park vista dall’Arthur Ashe Stadium

Il Flushing Meadows Corona Park meriterebbe la visita in un qualunque altro momento dell’anno, anche se la fontana dell’Unisfera non è sempre in funzione e un progetto per rinnovare le tre fontane della World Fair verrà completato solo nel 2020, ritardi permettendo. I turisti meno ossessionati dalle loro guide Manhattan-centriche dovrebbero mettere in conto una tappa quaggiù, una a Sunnyside e una a Jackson Heights. Tre fermate delle metro 7 lungo il Queens. È solo questione di volontà. Soprattutto quella di capire cosa sia realmente New York.

IL MAESTOSO “USTA BILLIE JEAN KING NATIONAL TENNIS CENTER”

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Arthur Ashe Stadium (le cui colonne non sono curve: colpa del mio telefonino e della mia pigrizia)

Billie Jean King a 75 anni è ancora una Regina del tennis. Ha vinto 39 titoli del Grande Slam, tra singoli e doppi. Ha vinto la più famosa partita di tennis di sempre, quella giocata quando aveva 29 anni contro il cinquantacinquenne Bobby Riggs. Da sempre Billie Jean King si batte per la reale uguaglianza tra donne e uomini. Per questo il complesso tennistico più importante d’America è stato a lei dedicato nel 2006. Ed è un complesso spettacolare.

Al suo interno ci sono 22 campi da tennis, mentre altri 11 si trovano sparsi nel Flushing Meadows Corona Park. Il campo principale, inaugurato nel 1997, è l’Arthur Ashe Stadium, nominato in onore del primo vincitore degli US Open nel 1968, primo anno in cui anche i tennisti professionisti avevano potuto prendere parte al torneo. Arthur Ashe lo aveva vinto anche da non professionista. E, cosa principale di tutte, nel 1963 era stato il primo giocatore afroamericano selezionato per la squadra americana di Coppa Davis.

Il campo principale degli US Open, prima del 1997, era il Louis Armstrong Stadium. Nominato in onore del più famoso jazzista di sempre e cittadino del Queens. Lo stadio attuale è comunque completamente nuovo rispetto all’originale del 1978. È stato inaugurato nel 2018, ha un tetto retrattile e può contenere 14000 spettatori. 

Ma oggi è l’Arthur Ashe Stadium il gioiello del complesso tennistico dove si tengono gli US Open. Lo stadio per il tennis più grande al Mondo, con 23771 posti a sedere. Anche lui ha un tetto retrattile, completato nel 2016, che rende New York immune alle intemperie di stagione dopo annate in cui le finali sono state più volte rinviate per pioggia. Quella del tetto è una struttura molto leggera rispetto ai tetti tradizionali degli stadi coperti. Perché il terreno su cui sorge il complesso è esattamente lo stesso delle discariche di cenere di cui parlava Scott Fitzgerald proprio nel Grande Gatsby.

INGRESSO 37, SETTORE 336, POSTI 11, 12 E 13

Il primo incontro di tennis dal vivo non si scorda mai, e così i posti a sedere. Ero terrorizzato dalle dimensioni dell’Arthur Ashe Stadium. Pensavo che la mia prima esperienza agli US Open si sarebbe limitata a vedere due puntini lontani. Sorpresa. La visibilità era perfetta. Così come il pollo fritto, le patatine e il bicchiere gigantesco di Coca Cola (bevuta solo perché avevamo in famiglia qualche problema di digestione, frutto di una fine estate parecchio irregolare a tavola).

La prima partita è stata quella tra l’ucraina Elina Svitolina e la britannica Johanna Konta. Due set e Svitolina se n’è andata in semifinale (poi persa contro la canadese Bianca Andreescu, che se la vedrà in finale contro la favoritissima stella di casa, l’americana Serena Williams, un mito per qualunque giovane tennista).

La “Guida Inutile” ci mette la faccia (e prima o poi imparerà a farsi un selfie decente, che lui continua ostinatamente a chiamare autoscatto)

Anche il match con Stan Wawrinka ha regalato una sorpresa. Nonostante il pubblico di casa, a parte il mio piccoletto, fosse tutto a favore dello svizzero, è stato il russo Daniil Medvedev a vincere 3-1 la partita. Il sottoscritto capisce ben poco di tennis, ma Medvedev sembrava nettamente superiore e in totale controllo della gara. Mio figlio ha azzeccato ancora una volta il vincitore. Forse il fatto che il russo sia il numero 5 nella classifica ATP, mentre Wawrinka è solo al numero 24, avrebbe dovuto suggerire un po’ di moderazione al pubblico di casa.

Ma si sa, i newyorchesi sono degli snob presuntuosi cagacazzo. Io, dopo soli sei anni e mezzo di vita a New York, mi sto mettendo di buzzo buono per bruciare le tappe e diventare pure io un vero newyorchese. Dovrei avere un talento innato (e una modesta fuori dal comune). Il fatto che a New York gli italiani, almeno nell’ultimo secolo, abbiano avuto un ruolo determinante non mi sorprende più. E capisco perché molti newyorchesi veraci, per dare un’idea a chi legge, siano come un misto tra i peggiori milanesi, napoletani, romani e torinesi messi insieme. Ho citato nord e sud, e le prime quattro città italiane, di modo da non scontentare nessuno.

ANDATE AGLI US OPEN, SE SIETE A NEW YORK, VALE TUTTO IL PREZZO DEL BIGLIETTO

Da martedì mi chiedo: ma perché non siamo mai andati prima, agli US Open? Voglio dire, abbiamo pur sempre la fortuna di vivere a New York… Se vivessi a Londra non andrei a Wimbledon solo per mangiare in un indimenticabile ristorante indiano a buffet. Ho dimenticato il nome, a dire il vero. Ma ancora ricordo che, anni fa, mi ero fatto un’ora di metropolitana solo per andare a mangiare laggiù. Burp.

“Hello”! Per vedere Djokovic e Monfils

Passeggiare per l’USTA Billie Jean King, soprattutto in una giornata di sole, ti fa venire voglia di iniziare a giocare e tennis. Ma anche di comprare qualunque cosa. Tipo spendere 20 dollari per l’asciugamano con il simbolo ufficiale degli US Open. L’unica disponibile, a meno di non aver la fortuna d’intercettare quella col sudore originale di Nadal.

Nonostante quello che qualche ventenne invidioso e snob del Gothamist possa scrivere per fare l’occhiolino ai millennials che devono pagargli lo stipendio, agli US Open si mangia pure bene e spendendo quello che ti puoi attendere da un evento internazionale in una delle città più care del pianeta. Quaggiù anche in un qualunque Shake Shack un hamburger può costare dieci dollari. Dove sarebbe, allora, la sorpresa di spenderne quindici durante una partita di uno dei tornei più famosi al Mondo? Stai a casa. Se sei venuto quaggiù, è perché i soldi li hai. Di tasca tua o di tasca del tuo editore.

Anche i bambini si divertiranno. Il nostro si è fermato ad ogni possibile partita giocata dai giovani nei campi secondari. E ha sperato che potessimo vincere un viaggio aereo partecipando ad una specie di lotteria elettronica allo stand della Emirates. Noi con lui. 

ASPETTANDO MATTEO

Non andrò a vedere la semifinale tra Berrettini e Nadal. Ho cercato i biglietti, per pura curiosità. Non erano nemmeno così cari, i più economici. Con  100 dollari avrei potuto vedere entrambe le semifinali. Alle sei del pomeriggio proverò invece ad essere davanti ad un televisore, per urlare “Go Matteo!”. Dubito comunque che la partita possa iniziare a quell’ora, a meno che Medvedev si divori il bulgaro Grigor Dimitrov nella prima semifinale del giorno, quella in programma alle 16:00 (o 22:00, ora italiana).

Come prevedibile, il pubblico dell’Arthur Ashe sarà tutto a favore di Rafael Nadal. Ma nemmeno contro il francese Gaël Monfils il nostro eroico Berrettini ha avuto vita facile. Monfils ha fatto scena per tutta la gara, ha cercato di portare dalla sua parte gli spettatori con tutta la malizia possibile. Più e più volte si piegava, toccandosi le caviglie, a mostrare quanto fosse stanco. E poi se ne usciva invece con colpi spettacolari, quasi fosse resuscitato dalla tomba.

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Quando Berrettini doveva ancora battere Monfils, la “Guida Inutile New York” già sapeva

Non lo so se Berrettini si sia fatto ingannare da questa sceneggiata. Immagino che dieci anni di differenza e di esperienza in più si facciano sentire a questi livelli. Ma Matteo Berrettini non sembra solo un tennista di talento. Sembra un giovane davvero in gamba, uno di quelli per cui noi italiani possiamo davvero andare orgogliosi, per una volta tanto. Per essere arrivato in semifinale a New York significa che Berrettini è sicuramente intelligente e determinato. Bravo, se lo merita.

Non lo so se si possa paragonare ad Adriano Panatta. Il correttore automatico dell’iPad, quello con cui scrivo, nemmeno lo sa chi sia stato Panatta e corregge in “Panarea”. Vergogna. Un eroe, Claudio Panatta, per i cinquantenni come il sottoscritto. E romano come Berrettini. Nemmeno so se si possa paragonare ad un altro grande tennista italiano di quegli stessi lontani anni, Corrado Barazzutti. Di sicuro, proprio dopo Barazzutti, Matteo Berrettini è stato il secondo italiano di sempre a qualificarsi per un quarto di finale agli US Open. Bravo Matteo.

Ma so una cosa di certo. Se avessi anch’io 23 anni come Matteo Berrettini, vorrei essere suo amico. Perché ti basta sentire una sua intervista per capire che sia un ragazzo simpatico e di cuore. Dopo aver battuto Monfils è riuscito a dire al giornalista che lo intervistava sul campo: “quando stavo giocando ho pensato che quella era forse una delle migliori partite che avessi mai visto… voglio dire, stavo giocando ma stavo anche guardando il match”. Un grande, Matteo.

Anche di un’altra cosa sono certo. Durante l’intervista le telecamere hanno ripreso l’angolo dove sedevano l’allenatore e tutti gli accompagnatori di Berrettini. Tra questi il giornalista ha citato anche Giovanni, del ristorante Via della Pace, qui a New York. Ecco, adesso so dove devo andare prossimamente a farmi una carbonara quando sono vicino alla Bowery.

Forza Matteo! Per me, gli US Open, li ha già vinti lui.

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Sognando Matteo Berrettini in Finale agli US Open…

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