Queens, Willets Point, New York, New York City
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Cosa vedere nel Queens #1 | La Valle Delle Ceneri

Nel Queens, dove sono oltre 130 le lingue parlate, è possibile ritrovare il pianeta intero. Ce lo ricorda, con la sua forza simbolica, anche la visione del Globo in acciaio più grande al Mondo. Ma forse, ancora di più, la contiguità di sfasciacarrozze, alberi e arte varia.

Queens, penultima fermata della metro 7, direzione Flushing. Il treno corre in sopraelevata seguendo il percorso della strada sottostante. Sulla destra, poco prima di entrare in stazione, s’intravedono la gigantesca sagoma dell’Unisfera e poi quella altrettanto massiccia dello Stadio del tennis, entrambi all’interno del Flushing Meadows-Corona Park. Sulla sinistra, e assai più vicina, la grande casa dove i New York Mets giocano a baseball, il Citi Field. Mets-Willets Point è il nome della stazione.

La pioggia battente della mattinata ha lasciato spazio ad una pioggerella fine e intermittente. Sollevare anche il cappuccio della giacca impermeabile è fin eccessivo, ma la visiera del solo berretto non impedisce all’acqua di fermarsi sulle lenti degli occhiali. Lascio la stazione alle mie spalle, uscendo dal lato dello stadio del baseball. Cammino lungo Roosevelt Avenue in direzione est, la stessa dei treni che continuano la loro corsa sopra la mia testa. All’angolo con 126th Street svolto a sinistra e attraverso la strada. Di fronte a me, in diagonale, si apre Willets Point Boulevard.

Boulevard. Un amico di Piombino, alla domanda “cosa fai nella vita?” rispondeva sempre: “l’agricoltore”. Non diceva balle. Fingeva solo di dimenticare che i suoi campi, fatti di argilla e sassi, producevano uva. E che lui, quell’uva, la faceva poi fermentare in barrique. Spirto, Libatio, Paleatico, Rubido, Kalendamaia. Per i nomi dei suoi vini non si tirava indietro. Un bel giorno, all’ennesima, identica domanda, disse ad una ragazza che lui faceva vino. “Affascinante”, la sventurata rispose.

Affascinante, come la lingua francese. Anche il prologo di un film porno, in francese, trasuda musica. Boulevard non fa eccezione. È una parola che ti catapulta in spazi larghi, lunghezze infinite. Richiama vetrine illuminate, panchine, alberi. E asfalto, certo. Willets Point Boulevard è l’eccezione. I rari boulevard newyorchesi sono spesso anonimi, senza traccia d’alberi. Ma in questo angolo del Queens non c’è nemmeno l’asfalto.

WILLETS POINT, “IRON TRIANGLE”

Due macchine si fermano all’inizio del viale. Alcuni uomini distribuiscono dei biglietti da visita ai guidatori. La pioggia ha trovato sfogo negli avvallamenti della strada sterrata. Benvenuti nell’Iron Triangle.

Queens, Willets Point, New York
Queens, Willets Point, la vita delle automobili

Queens, uno dei cinque “borough” che compongono New York City. Primo per dimensioni e secondo per popolazione, dopo Brooklyn. Per 2 milioni e 300mila abitanti il Queens è casa. Quasi la metà dei suoi abitanti è nata all’estero. La New York delle tante culture, etnie, nazionalità, la New York che vanta la sua diversità, si trova soprattutto quaggiù, dove secondo il censimento sono oltre 130 le lingue parlate. Nella ricerca spasmodica di novità da vendere ai turisti, dopo le attrazioni commerciali world-class di Manhattan e l’alternativa globalizzata di Brooklyn, sta arrivando il momento del Queens. Non ancora quello di Willets Point, un po’ prematuro. Ma non c’è guida internazionale o rivista locale che non ti ricordi che basta prendere la metro 7, scendere a Sunnyside e avere, nel raggio di pochi isolati una rappresentazione plastica di qualche dozzina di Nazioni, come nemmeno in un’Expo. La Lonely Planet, battendo tutti gli altri sul tempo, lo scorso anno ha proclamato il Queens destinazione americana Numero Uno per il 2015. Massimo rispetto al direttore pubbliche relazioni, marketing e turismo della “Queens Economic Development Corporation”, missione compiuta. Il futuro del Queens, a dire il vero, non è il frutto dei piani strategici adottati da una squadra di esperti in marketing territoriale. Molto più semplicemente, è il risultato delle dinamiche demografiche che si sviluppano nella vasta area metropolitana di New York e delle loro ripercussioni sul mercato immobiliare. La città, con un mercato del lavoro in cerca di professionisti e tecnici altamente specializzati, attira sempre più abitanti. Gli appartamenti a Manhattan e Brooklyn hanno prezzi in continua crescita e il terreno edificabile in tempi brevi è merce rara. Il Queens è già adesso la prima opzione alternativa disponibile, nell’attesa che il piano casa del Sindaco De Blasio faccia sentire i suoi effetti sull’intera New York. Dove arrivano nuovi abitanti, e si costruiscono condomini, arriva poi tutto il resto, turismo compreso. Visione fantascientifica, almeno dall’Iron Triangle.

Queens, Willets Point, New York, New York City
Queens, le strade di Willets Point in un’ordinaria giornata di pioggia

Willets Point, il Triangolo del Ferro. Sedici isolati che si affacciano sul fiume Flushing e sulla baia che porta lo stesso nome. Qui il via vai non è quello dei turisti. L’assenza di marciapiedi costringe a condividere la strada con tutto quello che si muove a motore. Le strade sono così sconnesse che camion e auto non si muovono comunque ad un passo più veloce di chi cammina. Tenere i piedi all’asciutto e non scivolare, facendo zig-zag tra le buche allagate, sono una priorità in confronto al rischio d’essere investiti. Il cielo grigio e la pioggia creano uno sfondo uniforme, ideale per mettere in risalto rifiuti abbandonati, carcasse d’auto e insegne colorate. Meccanici, carrozzieri, sfasciacarrozze, gommisti, venditori d’autoricambi. Fino a qualche anno fa, nei 61 acri o 246.000 metri quadri di Willets Point si trovavano un centinaio di piccole attività e lavoravano circa 1500 persone. Adesso il numero di officine e negozi si è ridotto di oltre la metà, così come il numero di quelli che qui hanno ancora un lavoro. Le fogne si fermano giusto poco prima di entrare a Willets Point. Anni di promesse, e poi di argomentazioni giuridiche, non le hanno fatte avanzare di un metro. Anzi, le fogne sono state proprio usate come un’arma politica per fiaccare la resistenza dei tanti che quaggiù provano a non mollare di fronte alle speculazioni immobiliari. Ma chi decide di venire comunque a Willets Point, così come chi ci lavora ogni benedetto giorno, bada a ben altro. Per riparare un’auto a prezzi ragionevoli non c’è posto migliore di questo. Nel Queens è un fatto noto a tanti, soprattutto a chi abita nei quartieri più vicini.

“IL GRANDE GATSBY” E LA VALLE DELLE CENERI

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New York, Esposizione Universale 1939, “The World of Tomorrow” (archivio NYC Parks)

Facciamo un lungo salto indietro nel tempo. 30 Aprile 1939, inaugura l’Esposizione Universale di New York nei padiglioni del Flushing Meadows Park. Tutta quest’area di 897 acri (oltre 3 chilometri quadrati e mezzo) sino alla fine dell’800 era una palude di acqua salata, dove fauna e flora trovavano e ricreavano un habitat accogliente. Nel 1909 inizia la sua trasformazione in discarica. Sono gli anni dello sviluppo industriale di New York. Nelle centrali elettriche e nelle fornaci si brucia carbone, le cui ceneri da qualche parte devono poi finire, per non parlare di quello che dall’aria si depositava nei polmoni. La “Brooklyn Ash Removal Company”, che guadagna smaltendo queste ceneri, cerca un nuovo sito dove ampliare la sua attività e lo trova proprio nella palude che si affaccia sulla baia di Flushing. Per 20 anni, ogni giorno in quest’area arrivano almeno 100 camion carichi di cenere. A poco a poco la palude scompare, sostituita da alte montagne di cenere. La discarica prende il nome di Corona, come l’omonimo quartiere adiacente.

Corona Ash Dump, Valley Of Ashes, Queens, New York
Corona Ash Dump, la discarica chiamata “Valle Delle Ceneri” ne “Il Grande Gatsby” di F. Scott Fitzgerald (archivio NYC Parks)

Tra le altre cose, la Mount Corona Ash Dump finisce anche in uno dei romanzi più famosi degli anni ’20, Il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald. “A metà percorso tra West Egg e New York, l’autostrada si affianca alla ferrovia e la costeggia per un quarto di miglio, quasi volesse ritrarsi da una certa area desolata del territorio. Questa è la Valle delle Ceneri – una landa irreale nella quale le ceneri crescono come il grano sulle colline, sui crinali e nei giardini grotteschi, dove prende la forma di case, comignoli e volute di fumo e, infine, con uno sforzo trascendentale, di uomini che si muovono nella luce fioca e già si sbriciolano nell’aria polverosa”. La Valle Delle Ceneri, come tale, non è mai esistita, così come West Egg. Ma Fitzgerald si riferiva proprio alla discarica di Corona.

Il progetto per l’Esposizione Universale del 1939-1940 prevede la bonifica di Mount Corona e la creazione di un nuovo parco. Artefice del progetto è Robert Moses, figura centrale nella New York di Fiorello La Guardia, uno dei sindaci più famosi e amati della città. Mai eletto, Moses è l’uomo che più di altri segna il destino di New York nel XX secolo. Pianificatore urbanistico, tutte le grandi opere pubbliche della città, autostrade, ponti e parchi in primo luogo, passano da una delle tante agenzie cui Robert Moses è a capo. L’opera di bonifica per l’Esposizione del 1939 si estende sino alla baia, ma la creazione del Flushing Meadows Park non comprende l’area che oggi conosciamo come Willets Point. Sempre nelle prime pagine del secondo capitolo de Il Grande Gatsby, Fitzgerald-Nick menziona un fantomatico garage che incontra sul suo cammino mentre segue l’amico Tom nella Valle Delle Ceneri: “Officina. George B Wilson. Compravendita di automobili”. Non ho la più pallida idea se quel garage esistesse davvero. Ma è vero che, a partire dagli anni di Gatsby, quest’area del Queens a poco a poco si riempie di piccole attività. Alla fine degli anni ’50 Willets Point è già un distretto dove si concentrano decine di officine e negozi di ricambi per auto. La zona finisce periodicamente nel mirino di qualche piano di sviluppo immobiliare e commerciale, senza fortuna per gli speculatori. La resistenza di Willets Point sembra però destinata a soccombere davanti al progetto di una nuova Esposizione Universale, prevista per il 1964. Robert Moses è ancora al posto di comando e ha un obiettivo preciso: radere al suolo quel distretto inquinante e ricollocarlo altrove, su terreni meno preziosi. Nel 1963, giusto un’anno prima dell’inaugurazione dell’expo, succede l’impensabile. Il potentissimo Moses perde la causa contro gli operatori di Willets Point, il distretto dei meccanici e dei carrozzieri è salvo. L’artefice di quella vittoria è un giovane avvocato il cui nome tornerà presto nella storia di New York: Mario Cuomo, futuro governatore dello Stato e papà dell’attuale governatore Andrew Cuomo. Robert Moses è l’uomo che ha costruito le autostrade a New York, che ha privilegiato la macchina rispetto al treno, che ha creato i sobborghi ricchi di Long Island segregando i poveri in città. Per un uomo come lui, perdere è un concetto quasi estraneo. Ancora poco prima di morire, quando era già novantenne, Moses chiese ad un giornalista: “se ne sono finalmente andati quei maledetti sfasciacarrozze?”.

New York, Queens, World Fair 1964
New York, Esposizione Universale 1964 (archivio NYC Parks)

Oltre 40 anni sono passati dall’ultima esposizione universale a New York e l’area industriale di Willets Point è ancora qui, costeggiata da uno dei corsi d’acqua più inquinati d’America. Al fianco di quest’area sono arrivati l’ormai defunto Shea Stadium e poi il Citi Field, stadi dove da sempre hanno giocato i Mets del baseball. Willets Point continua ad essere al centro delle attenzioni dei costruttori cittadini. Nel 2007 il Sindaco Michael Bloomberg annuncia un piano per lo sviluppo urbanistico attorno al futuro Citi Field. Ad ovest dello stadio, al posto del parcheggio, un grande centro commerciale. Ad est, la cancellazione della famigerata area industriale, con la ricollocazione definitiva delle officine e la costruzione di nuove abitazioni. Nella primavera del 2016, dopo quasi dieci anni, non c’è traccia del centro commerciale e anche per i nuovi condomini non si vede l’orizzonte. Gli operatori di Willets Point, supportati dal rappresentante di quest’area del Queens presso il Senato di Albany, sono riusciti a bloccare i lavori per la costruzione del centro commerciale, anche attraverso il consenso implicito dell’attuale Sindaco Bill De Blasio, il quale non crede che il piano del suo predecessore sia d’aiuto per risolvere l’emergenza abitativa della zona. Da qualche mese, intanto, alcune officine hanno accettato le condizioni economiche per cedere i terreni su cui sono cresciute e per ricollocarsi nel Bronx. Altri proprietari, invece, non intendono arretrare di fronte a quello che considerano, ragionevolmente, non come un esproprio per il bene pubblico ma come un regalo a vantaggio di grandi investitori privati.

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Queens, Willets Point Boulevard

Nonostante le promesse di migliaia di nuovi lavori temporanei per edificare la zona e di altrettanti impieghi definitivi nelle nuove attività che dovrebbero aprire, c’è però la concreta preoccupazione per le centinaia che già adesso lavorano quaggiù. Si tratta quasi sempre di lavori a basso salario, e quasi sempre svolti da persone che abitano nei quartieri limitrofi. Anche solo doversi spostare ogni giorno nel Bronx per molti di loro significherebbe aggiungere un ulteriore peso economico, per non parlare del tempo sottratto alle famiglie. Tra chi si oppone con ogni mezzo possibile all’esproprio c’è anche Joseph Ardizzone, l’ultimo residente ufficiale di Willets Point. 84 anni, figlio di un’emigrato siciliano, Ardizzone ha sempre vissuto qui e non intende lasciare la sua casa. Lui, come i piccoli proprietari e gli operai delle officine, fa parte di quella città che pochi vogliono vedere. Ad aprile di quest’anno, durante la campagna elettorale per le elezioni primarie a New York, nessun candidato ha messo piede qui, nemmeno quello che si auto-dichiara socialista. Forse perché gli schizzi di fango non avrebbero colpito solo le loro scarpe.

FLUSHING MEADOWS-CORONA PARK

Flushing Meadows pedestrian bridge, Queens, New York
Flushing Meadows, ponte pedonale sulla Long Island Railroad

Lascio anch’io Willets Point, portandomi via un po’ di fango sugli scarponi anfibi, tanto per non dimenticare in fretta. Torno alla fermata della metropolitana ma non intendo ancora lasciare il Queens. Dalla stazione percorro la passerella che scavalca i binari della ferrovia per Long-Island e s’innesta nel Flushing Meadows-Corona Park. Il nome Corona, originariamente, non era previsto. Ma gli abitanti del quartiere non amavano l’idea di essere ricordati solo per la discarica. Così nel 1964, poco prima dell’Esposizione Universale, il nome venne aggiunto con buona pace di tutti. Sebbene il parco si trovi tra due quartieri popolosi, come Flushing e Corona, e sia un luogo fondamentale per queste due comunità, raggiungerlo è più semplice se si arriva in metropolitana, in treno o (maledetto Robert Moses) in macchina. Per arrivarci a piedi, le opzioni sono assai di meno. Questa lunga fascia verde, infatti, è schiacciata tra due autostrade ed è tagliata a metà da una terza. Notoriamente, attraversare un’autostrada a piedi è sconsigliato.

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USTA Billie Jean King National Tennis Center, Arthur Ashe Stadium, dove si gioca la finale degli US Open di tennis

A meno di non avere molto tempo a disposizione, e di essere davvero interessati a scoprire la New York più sconosciuta, riconosco senza troppo difficolta che “andare a Willets Point” possa non rientrare nella Top 10 delle attrazioni newyorchesi. Io prima di andare a Venezia preferisco passare da Marghera, ma capisco che molti marcino dritto su Piazza San Marco, per la gioia dei veneziani che non vedono l’ora d’essere invasi ogni giorno da orde di camminanti. Visitare il parco di Flushing Meadows è però qualcosa che un turista curioso, secondo il mio modesto parere, dovrebbe inserire nella sua lista.

Il turista di fine agosto, e ossessionato dal tennis, ha motivo d’arrivare qui a Flushing Meadows per gli U.S. Open [29 agosto – 11 settembre 2016]. Ovviamente, venirci già muniti di biglietti è la cosa migliore. Altrimenti prepararsi a fare la coda o a trattare con i bagarini. Ma anche il turista che arrivi qui nel resto dell’anno, o a cui il tennis faccia schifo, troverà soddisfazione a spasso per il grande parco.

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Flushing Meadows-Corona Park, l’Unisfera

L’attrazione principale è il gigantesco globo in acciaio che sorge agli inizi del parco. L’Unisfera era il simbolo dell’Esposizione Universale del ’64 ed è ancora oggi uno dei simboli e monumenti principali di New York. Con i suoi 121 piedi, o quasi 37 metri di diametro, pare sia la rappresentazione della Terra più grande al Mondo. Per vedere l’acqua nella grande vasca sottostante occorre attendere la primavera. Un gigantesco, stilizzato mappamondo che sorge nella Città Mondo per eccellenza (scusa Londra, ma non c’è gara) e nel Queens, borough che più di tutti a New York realizza l’idea originaria del melting pot americano. Iperbole retorica? Nemmeno tanto. Comunque, a titolo d’informazione, una copia piccola dell’Unisfera è visibile anche a Manhattan, in Columbus Circle, a fianco del “Trump International Hotel And Tower”. Si, quel Trump.

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Quel che resta del Padiglione dello Stato di New York, realizzato per l’Esposizione Universale del 1964

A pochi passi dall’Unisfera c’è la sede del Queens Museum. Vale una visita per le mostre temporanee e, soprattutto, per il grande “Panorama della Città di New York“. Si tratta di un modello in miniatura della città, anche questo realizzato per l’Esposizione Universale del ’64 e poi completamente aggiornato per la quinta e ultima volta nel 1992, approfittando dei due anni di chiusura del museo per rinnovo. I numeri sono impressionanti. 867 metri quadri di superficie, 273 sezioni individuali in cui sono riprodotti gli oltre 895.000 edifici costruiti in città prima del 1992. In scala 1:1200, si trovano tutte le strade di New York e si possono ancora vedere le Torri Gemelle. Tre anni di lavoro e oltre 100 gli artigiani che prepararono i modelli in legno e plastica. Il tutto per ricreare i 789 km quadrati della città. Adesso con una donazione di 50 dollari si può ottenere, letteralmente, l’intestazione di un appartamento in uno dei palazzi del modello in scala, e con almeno 1000 dollari quella di un intero edificio commerciale. In tanti lo hanno già fatto, per ricordare momenti importati della loro vita legati a un particolare luogo della città.

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Queens Museum, Panorama della Città di New York, modello in miniatura in cui sono ancora visibili le Torri Gemelle

Assieme al vecchio padiglione dello Stato di New York, e all’Unisfera, il palazzo che ospita il Queens Museum è una delle strutture permanenti sopravvissute all’Expo del 1964. Originariamente concepito per esporre le opere realizzate dalle diverse agenzie pubbliche della città di New York, tra il 1946 e il 1950 il palazzo ha ospitato le sessioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, prima del trasferimento nella sede definitiva a Manhattan. Anche in questo caso ritroviamo sulla nostra strada il nome di Robert Moses. E ben prima di Willets Point, quella della sede ONU è stata per lui una sconfitta più grande, e forse tra le meno meritate.

LE NAZIONI UNITE DEL QUEENS

Queens Museum, New York, Flushing Meadows-Corona Park
Queens Museum, sede dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal 1946 al 1950

Moses, come altri potenti newyorchesi del suo tempo (da Nelson Rockefeller ad Arthur Hays Sulzberger, editore del New York Times), aveva un’idea semplice: riutilizzare l’area della prima Esposizione Universale per costruire una grande città delle Nazioni Unite nel Queens. Nell’impossibilità politica di stabilire la sede nell’Europa dilaniata dalla guerra, la scelta dei diplomatici era caduta sugli Stati Uniti; e New York, dopo l’appoggio dei pesi massimi cittadini, aveva vinto la concorrenza di Philadelphia, Boston e San Francisco. L’area di Flushing Meadows sembrava la più ovvia, anche perché a pochissima distanza dall’aeroporto principale dell’epoca, che era quello di La Guardia. Ma nel 1946, al momento della presentazione del progetto, i 66 milioni di dollari per la sua realizzazione fecero sobbalzare più d’uno alle Nazioni Unite. E quella divenne la ragione ufficiale dell’ONU per rinunciare al progetto e dirottare le ben più magre risorse su alcuni isolati a Manhattan.

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Progetto per la sede delle Nazioni Unite nel Queens (Archivio Nazioni Unite, ONU)

Secondo alcune voci, che nessuno però negli anni è mai riuscito a verificare, la vera ragione fu invece l’opposizione di importanti delegati internazionali ad essere relegati lontano dalla vita notturna della città. Pare invece notizia fondata che Le Corbusier, tra gli architetti chiamati a ideare il progetto per il Quartier Generale, non gradisse la soluzione del Queens, proprio perché troppo suburbana e periferica. Alla fine, le Nazioni Unite hanno accettato in regalo dai Rockefeller il terreno sul quale sorge l’attuale sede lungo l’East River. Regalo da 8 milioni e mezzo di dollari. Il progetto definitivo fu un compromesso tra le idee di Niemeyer, anche lui chiamato a contribuire, e quelle di Le Corbusier, con quest’ultimo nella parte del vincente. Almeno, questa è la versione ufficiale così come raccontata dai media dell’epoca. La versione ufficiosa, quella nota agli storici dell’architettura cittadina, dice invece che furono due tra gli uomini più vicini a Robert Moses a determinare l’esito del progetto e la sua forma finale, così come la vediamo noi oggi.

United Nations, New York, New York City
New York, Palazzo delle Nazioni Unite visto da Tudor City (Manhattan)

Un fatto è comunque indiscutibile: New York non ama le Nazioni Unite. Altre città farebbero carte false per ospitare l’ONU, non New York. L’irrilevanza dell’ONU, avrà pure ragioni geopolitiche che volano sulle nostre teste, ma in questa città si tocca con mano. Ogni anno, a settembre, un intero pezzo di città viene letteralmente tagliato fuori, con conseguenze pesanti sul traffico e sulla vita di centinaia di migliaia di disgraziati. E sebbene il Palazzo di Vetro si trovi ai margini di Manhattan, in un’area dove a parte i residenti, gli impiegati e i turisti, nessun newyorchese mette piede per scelta, la chiusura di molte strade circostanti è un vero “pain in the ass” la prima settimana, per poi scemare a semplice rompimento di coglioni nelle tre successive. Troppo, soprattutto per i “non” benefici che ospitare un’organizzazione internazionale di queste dimensioni comporta. New York, piaccia o no al resto del Mondo, è un colosso economico internazionale contro il quale è difficile competere. La sua forza si poggia su due gambe enormi: finanza e media. Difficile, se non impossibile, trovare al Mondo una combinazione di questo tipo e altrettanto potente, soprattutto quando si parla di media, ché di centri finanziari c’è la fila. Ma la diplomazia si gioca nelle Capitali, e questa città non è lo nemmeno nello Stato che porta il suo nome. Anche senza questo vuoto o ipotetico titolo di città della diplomazia, New York sarebbe lo stesso sulle carte geografiche. Per questa stessa ragione, quando la città presenterà una nuova candidatura per le Olimpiadi significherà solo che una super-speculazione immobiliare è di nuovo all’orizzonte. Willets Point, guarda il caso, era già lì contro Londra…

GO METS!!!

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Tifosi dei New York Mets giocano a “beer pong” e si preparano a fare barbecue. Tempo di “tailgate”

Per me adesso è tempo di lasciare Flushing Meadows e tornare a casa. Per i tifosi dei Mets, invece, è tempo di raggiungere lo stadio. Ancora un paio d’ore prima dell’inizio della partita al Citi Field, e molti arriveranno all’ultimo minuto via metropolitana o treno. Ma tanti altri, in macchina, stanno già arrivando, con un bel po’ d’anticipo. Perché anche a New York, come in ogni città americana, il parcheggio di uno stadio ha una funzione che va oltre il semplice spazio per l’automobile: è il luogo consacrato al “tailgate“, la festa che i tifosi organizzano sul retro delle loro macchine, trasformandole in bar e barbecue ambulanti. Sperando che la pioggia continui a risparmiare questa valle del Queens ancora per qualche ora.

[P.S. Dimenticavo, Piombino. Se laggiù cercate un avvocato, magari con un cognome regale, o una cuoca altrettanto regale per una sublime cena eritrea, vi posso aiutare. Ma se cercate il vino di cui sopra, andate all’azienda agricola S. AGNESE. E chiedete di Paolo Gigli. “Affascinante…”]

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